Rampini la fa un po’ troppo semplice

Ho visto girare sui social un video – diventato virale – in cui Federico Rampini, giornalista di Repubblica e scrittore, sostiene la tesi secondo cui dovremmo aiutare i migranti a casa loro e propone alcuni argomenti a favore di questa tesi. Il video, che è stato ripreso soprattutto da pagine che pubblicano contenuti di destra e anti-immigrati, viene presentato come “Il discorso più sensato sull’immigrazione fatto da un onesto giornalista di sinistra”.

https://www.facebook.com/watch/?v=344938136422430

L’argomento apparentemente più ragionevole sembra questo: l’emigrazione impoverisce i paesi di origine, che perdono così i cittadini più istruiti e abili. Limitando l’ingresso di queste persone, quindi, aiutiamo i paesi di origine. È la storia insomma della fuga dei cervelli. Dice Rampini:

Metà di tutti i medici dello stato africano del Malawi oggi, in questo momento, stanno lavorando negli ospedali della città di Londra. […] È cosi che li stiamo aiutando, portando via, succhiando via le loro élite? […]

Il meridionalismo di sinistra in Italia, negli anni Cinquanta, aveva già detto tutto. Il meridionalismo di sinistra aveva capito benissimo che l’emigrazione impoverisce i paesi di partenza.

La tesi è interessante e intuitivamente piuttosto sensata. L’argomento è particolarmente convincente perché, a differenza di quel che siamo abituati a sentire, offre una giustificazione altruistica e non egoistica a una politica restrittiva dell’immigrazione. Ha senso limitare l’immigrazione dai paesi poveri, dice Rampini, non perché non vogliamo gli immigrati ma perché lasciando immigrare i più capaci e istruiti danneggiamo i paesi d’origine. (In realtà Rampini subito dopo parla di “modifica sostanziale permanente della composizione etnica del paese” su cui “i cittadini hanno diritto di pronunciarsi”, ma quello è un altro discorso. Questo argomento, l’argomento della fuga dei cervelli, è un argomento altruistico).

Nonostante l’apparente buon senso, però, la tesi di Rampini ha due problemi piuttosto grossi.

La libertà individuale

Il primo problema ha a che fare con la libertà individuale. Supponiamo che quello che dice Rampini sia vero e che lasciar immigrare uno studente di medicina dal Malawi in Italia crei un danno al Malawi. Sappiamo che lo studente vuole lasciare il suo paese e verosimilmente, salvo disgrazie, si troverà meglio in Italia rispetto che a casa sua. Dovrebbe il Malawi impedirgli di emigrare per prevenire l’impoverimento della propria comunità? Dovrebbe l’Italia bloccarlo alla frontiera e sacrificare il benessere del medico per evitare un danno al Malawi?

Non è un problema di poco conto, ma Rampini non lo sfiora neppure. È un breve discorsetto, certo, e magari nei suoi libri Rampini si pone il problema seriamente ed espone le sue osservazioni sul perché sia preferibile subordinare la libertà individuale di quell’uomo al potenziale benessere della sua comunità. Ma qui il punto non è tanto Rampini, ma se il suo breve messaggio, visto e condiviso migliaia e migliaia di volte, abbia senso.

Intendiamoci: non sto dicendo che il benessere o la libertà del singolo non possano mai essere sacrificati per un vantaggio collettivo. Sarebbe un’assurdità. La maggior parte degli obblighi di legge impongono un costo al singolo per il bene di altri e tanti di questi obblighi o doveri sono politicamente e moralmente giustificati.

La libertà di movimento – la libertà di spostarsi fisicamente da un luogo all’altro, di perseguire i propri progetti di vita, coltivare relazioni, lavorare – è però una prerogativa così importante per la vita dell’uomo, che la sua restrizione dev’essere quantomeno sottoposta a un giudizio particolarmente severo. La nostra posizione di default, insomma, dev’essere a favore della libertà di chiunque di lasciare il paese dove si è nati. Ci possono essere casi in cui è giusto limitare questa libertà, ma questa limitazione deve superare un severo onere della prova. Il fatto che lasciar emigrare qualcuno danneggi qualcun altro non basta a liquidare in fretta e in furia la questione. Vanno argomentati con rigore costi e benefici, ragioni etiche e politiche, concezioni dell’uomo e della società, sempre con la consapevolezza che il pregiudizio a favore della libertà di emigrare è meno pericoloso del pregiudizio contrario.

Per i liberali questo punto è scontato (o dovrebbe esserlo). Sia che abbiate una visione radicale dei diritti individuali à la Nozick o più semplicemente una concezione classica del liberalismo – pensate a Locke e al suo Secondo Trattato sul Governo: “Ciascun uomo ha la proprietà della sua propria persona” – sarete fortemente scettici sul potere dello stato di rinchiudere qualcuno dentro i propri confini per la sola ragione che i talenti di questa persona debbano essere dedicati ai residenti di quello stato.

Ma non serve essere dei libertarian per essere molto cauti sulla questione. Anche se avete dubbi consistenti sull’idea della “proprietà di se stessi” (e, per inciso, ha senso averne), l’idea che la libertà d’emigrare vada protetta è un’idea piuttosto efficace nell’ambito di diverse concezioni dell’etica e della politica. Andrebbe adottata come posizione di default, cioè fino a che non ci sia una convincente e sostanziale prova contraria.

Joseph Carens, ad esempio, critica le restrizioni all’immigrazione rifacendosi al contrattualismo di John Rawls; Mathias Risse ha riflettuto su come politiche migratorie restrittive ostacolino lo sviluppo delle potenzialità umane, in un approccio che si rifà all’etica delle capacità di Sen e Nussbaum; e tanti filosofi utilitaristi ed economisti hanno presentato sofisticate analisi su come i benefici del libero movimento di persone siano molto più dei malefici, incluso quello della fuga dei capaci.

Ricordate, peraltro, che qui non stiamo nemmeno parlando del diritto di chiunque a immigrare in qualsiasi paese (anche se gli argomenti per quella diversa, e più complicata, conversazione sono simili), ma del diritto di lasciare un paese nell’ipotesi in cui si abbia un altro posto dove andare.

E questo diritto – quantomeno come posizione di default da confutare con prove forti – è così chiaramente in linea con le principali concezioni etiche e politiche delle democrazie contemporanee da far parte del consenso costituzionale. È un diritto riconosciuto, per esempio, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. All’articolo 13, comma secondo, si dice che “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”. Più cautamente, la Costituzione italiana, all’articolo 35, “riconosce la libertà di emigrare, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale”. Ma l’interpretazione di questa seconda parte (“salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale”) è piuttosto cauta e con un forte pregiudizio a favore dell’emigrante. “La libertà di emigrazione” ha scritto la Corte costituzionale nel 1986 “deve rimanere, quanto più possibile, scevra da limiti (solo eccezionalmente può essere condizionata da obblighi derivanti dal bene comune)”.

Insomma, il problema che quel video ignora del tutto è un problema delicatissimo e la procedura ragionevole per trattarlo sembra essere questa: dobbiamo tutelare la libertà di emigrare salvo che prove particolarmente forti sull’esistenza di circostanze eccezionali ci convincano che, tutto sommato, sia più giusto limitare questa libertà.

Bisogna anche considerare che anche qualora avessimo prove forti sui danni della fuga dei cervelli e ragioni eccezionali e convincenti per imporre dei costi a chi vuole lasciare il paese, il divieto di emigrare sarebbe la soluzione più estrema da adottare. Si potrebbero applicare imposte agli emigrati di successo, i cui proventi verrebbero investiti nella formazione di chi resta. O si potrebbero migliorare le condizioni istituzionali che contribuiscono a spingere i capaci a lasciare il paese. Dall’esterno – ecco un buon argomento altruistico – si potrebbero sostenere gli sforzi che i paesi più poveri fanno per rendere se stessi più attraenti, più accoglienti e più stimolanti per i capaci che se ne vogliono andare.

Allora: non basta dire quello che dice Rampini e cioè che “metà dei medici del Malawi lavorano a Londra” (fatto che, ci arrivo in un attimo, è probabilmente falso). Servono dati, discussioni, prove, argomenti forti. Nel frattempo, impedire a un uomo, una donna o una famiglia di provare a costruirsi una vita migliore in un luogo diverso da quello in cui si è nati dev’essere considerato sbagliato.

La fuga dei capaci

Il problema più serio del discorso di Rampini riguarda però proprio il contenuto dell’obiezione. Basta una mezzora su Google per rendersi conto che l’affermazione che Rampini presenta perentoriamente, cioè che l’emigrazione dei più capaci danneggia i paesi poveri, è tutt’altro che certa. Come intuizione suona ragionevole, certo, ma se scaviamo più a fondo scopriamo che non è affatto chiaro come stiano le cose. Ho deciso così di spendere alcune ore del mio tempo ad approfondire la questione.

Innanzitutto, secondo un servizio della BBC, la storia dei medici del Malawi (che peraltro Rampini riporta diversamente da come normalmente è raccontata) è probabilmente una bufala.

Ma anche se la storia in sé fosse vera, non è affatto chiaro che il Malawi sarebbe in condizioni migliori se quelle persone che ora fanno i medici a Londra o altrove fossero rimasti a casa. Anzi, alcuni studiosi del problema ritengono che in realtà l’emigrazione dei più capaci possa avere effetti positivi per il paese d’origine.

Com’è possibile? Per vari motivi. Innanzitutto, alcuni tra questi emigrati qualificati ritornano al paese d’origine. Alcuni lasciano il paese solo per studiare o per perfezionare la loro istruzione, con l’intenzione di ritornare a casa dopo pochi anni. Il 90% dei laureati della Micronesia ha studiato all’estero, per esempio, così come il 28% dei laureati del Ghana e il 49% di chi ha un master o un dottorato in Papua Nuova Guinea. Vanno, studiano, fanno esperienza e ritornano. Altri tornano perche i loro piani cambiano o perché dopo un certo numero di anni decidono di mettere a frutto la loro esperienza nel paese di origine o perché invece vogliono riunirsi con i loro cari. Misurare questi flussi con precisione è difficile, ma ci sono indicazioni che la quantità di ritorni volontari è significativa. Tra il 2009 e il 2014, per esempio, un milione di persone ha lasciato gli Stati Uniti per tornare in Messico e la maggioranza l’ha fatto di sua spontanea volontà.

Secondo, tanti tra quelli che non ritornano mandano parecchi soldi al paese di origine. Secondo la Banca Mondiale, nel 2015 questi soldi ammontano a 441 miliardi di dollari, il triplo degli aiuti umanitari ricevuti da questi paesi. Insomma, lasciar emigrare quelli bravi “aiuta a casa loro” quegli altri che restano e li aiuta il triplo di quanto facciano gli aiuti ufficiali dei paesi ricchi.

Terzo, il fatto stesso di poter emigrare e far fortuna all’estero grazie a un buon curriculum incentiva molti a studiare di più e quindi porta a una maggiore istruzione anche tra quelli che poi alla fine non emigrano. Capo Verde, per esempio, ha perso i due terzi dei cittadini maggiormente qualificati. Ciononostante, uno studio ha calcolato che se l’emigrazione da Capo Verde non fosse stata possibile, il numero di laureati sarebbe stato il 40% in meno.

Quarto, chi va a studiare all’estero in paesi democratici aiuta a promuovere la democrazia nei paesi d’origine. Così ha trovato ad esempio Antonio Spilimbergo nel 2009 studiando dati sugli studenti all’estero provenienti da 183 paesi dal 1960 al 2005.

Va anche considerato che i paesi più poveri spesso non hanno condizioni tali da poter assorbire molti cittadini qualificati. Costringere qualcuno a restare nel paese d’origine non significa necessariamente che quel paese beneficerà granché dei talenti di quella persona. Potrebbe invece trattarsi di un vero e proprio spreco e che quindi quelle capacità non siano sviluppate né messe a profitto in favore di nessuno.

Ci sono ovviamente dubbi e incertezze sulla misurabilità di alcuni di questi effetti e su che cosa comportano davvero. La conclusione più ragionevole è che non sappiamo bene se l’emigrazione crei più costi che benefici ai paesi d’origine, ma sembrerebbe che almeno per certi paesi i benefici siano più dei costi. Quel che è certo è che la semplice storia di Rampini non regge. La questione è enormemente più complicata e non sembrano esserci prove sufficienti per sostenere quello che sostiene Rampini.

Quindi?

Paul Collier, un economista dello sviluppo che ha studiato a lungo il tema dell’immigrazione ha scritto un libro, Exodus, che (nelle sue stesse parole) “è una critica dell’opinione prevalente tra i pensatori di sinistra, gruppo di cui faccio parte, secondo cui le moderne società occidentali debbano abbracciare un futuro postnazionale” (traduzione mia, come per il resto). Exodus sarebbe insomma il libro che Rampini avrebbe dovuto brandire dal podio di quel video, al posto della storia – esagerata e ricordata male – dei medici del Malawi.

Collier è molto critico con quella che ritiene l’ortodossia progressista sull’immigrazione. Arriva a sostenere, per esempio, l’instaurazione di rigide quote di migranti quale atto di compassione per i migranti e i loro paesi d’origine. Per Collier, l’immigrazione oltre una certa soglia comincia a danneggiare sia i paesi di destinazione sia i paesi d’origine, e molti paesi sono già vicino o oltre questa soglia.

Persino Collier, però, è parecchio scettico sul problema della fuga dei cervelli. Cita gli effetti che ho provato a riassumere in questo post e anche altri per spiegare come l’emigrazione dei più capaci potrebbe addirittura essere benefica per i paesi di origine. Collier conclude che “per i paesi in via di sviluppo complessivamente considerati la preoccupazione [per la fuga dei cervelli] è chiaramente fuori luogo: i benefici superano le perdite”. Collier però ritiene che per i paesi più piccoli la fuga dei cervelli sia un problema, ma osserva che l’enorme quantità di rimesse (i soldi che gli emigrati spediscono ai parenti poveri rimasti a casa) più che compensa le perdite. “Possiamo concludere tranquillamente” dice “che l’emigrazione è un bene per chi resta”.

Collier rimane seriamente preoccupato dal fatto che un’emigrazione più veloce di quella attuale possa però cambiare le cose e danneggiare i paesi di origine. Spende un intero capitolo a teorizzare sul punto. Rimane una teoria, interessante e da leggere, e sarebbe sbagliato arruolare Collier tra quelli che negano qualsiasi preoccupazione per la fuga dei cervelli. Ma resta il fatto che persino Collier, seppur preoccupato, è molto scettico sulla questione e concorda che, quantomeno allo stato attuale, non è un vero problema.

Una piccola, provvisoria conclusione sembra quindi essere questa: bisogna essere estremamente cauti. Non abbiamo prove sufficienti per giustificare una limitazione della libertà di emigrare sulla base dei possibili effetti negativi della fuga dei cervelli. Anzi, ci sono forti elementi per dubitare che questo fenomeno danneggi i paesi più poveri, o almeno molti tra questi. Ben vengano video come quello di Rampini in cui si affronta il tema dell’immigrazione in modo pacato, senza l’agitazione e il chiasso che solitamente gli sono associati. Ma la pacatezza non basta. Ci vogliono valori chiari e prove convincenti.

Per approfondire:
– Antonio Spilimbergo, “Democracy and Foreign Education” American Economic Review (2009)
– John Gibson and David McKenzie, “Eight Questions about Brain Drain”, Journal of Economic Perspectives (2011)
– Michael A. Clemens, “Economics and Emigration: Trillion-Dollar Bills on the Sidewalk?”, Journal of Economic Perspectives (2011)
– Joseph Carens, “Aliens and Citizens: The Case for Open Borders”, The Review of Politics (1987)
– Michael Huemer, “Is There a Right to Immigrate?”, Social Theory and Practice (2010)
– Matthias Risse, “Immigration, Ethics, and the Capability Approach”, Human Development Research Paper (2009)
– Paul Collier, “Exodus: How Migration Is Changing Our World” (Oxford Univeristy Press 2013)
– Michael Clemens and Justin Sandefur, “Let the People Go”, Foreign Affairs (2013) (una recensione molto critica di Exodus di Paul Collier)

(Correzione: Nel paragrafo sugli emigrati che ritornano ho chiarito la distinzione tra emigrati temporanei che vanno a studiare all’estero ed emigrati che ritornano per altre ragioni. La precedente versione accomunava le due categorie)

Roberto Tallarita

Studia cose tra diritto e economia, ma ha sempre il cruccio della filosofia. Ha vissuto in Sicilia, a Roma, a New York, a Milano; e ora a Cambridge, Massachusetts. Gli piacciono i libri, i paesaggi americani, e le discussioni sui massimi sistemi. Scrive cose che nessuno gli ha richiesto sin dalla più tenera età. Twitter: @r_tallarita