Gabriele La Porta e l’Albedo

Qualche tempo fa lavoravo per un famoso e longevo programma tv, Le invasioni barbariche. Ricordo che una puntata, di non so più quale stagione, prevedeva un talk che aveva come tema una sottocultura giovanile dell’epoca, gli Emo. Gli Emo avevano molti punti in contatto con le precedenti sottoculture dark e gotiche, prendevano un po’ dal mondo dei manga e qualche elemento dalla cultura skate californiana. Tuttavia dal punto di vista dell’estetica e della postura, negli adolescenti Emo, che a Milano frequentavano Piazza Vetra e le Colonne di San Lorenzo, prevalevano senza dubbio i toni della notte e il pallore della luna, come metafora dell’introspezione e accentuazione di tutto ciò che è ombra e interiorità. Perciò ci venne in mente l’idea un po’ stupida, «ironica» e televisiva di provare a invitare sul tema Gabriele La Porta. Non solo perché era il direttore del palinsesto notturno della RAI, non solo perché lui stesso era un
volto folleggiante del palinsesto notturno, ma pure per i suoi interessi filosofici, che riguardavano la magia e Giordano Bruno.

Chiamai per telefono La Porta. Sorpresa (o non sorpresa): La Porta era preparatissimo, conosceva gli Emo, sapeva chi erano, conosceva la loro storia, la genealogia, il linguaggio simbolico, la filosofia, le cronache. Era perfettamente preparato e affascinato da quella sottocultura. Segno che chi lavora in tv ogni tanto riesce a vedere dentro la sensibilità e «l’anima» di un ospite, pur conoscendone giusto due o tre coordinate biografiche. La chiacchierata con La Porta andò avanti per qualche minuto. Lui era contento, contentissimo del nostro invito, si sentiva valorizzato, riconosciuto nelle sue manie e ossessioni filosofiche e perfettamente fotografato nel valore che noi avevamo voluto attribuire alla sua presenza nel dibattito.

Del dibattito tv in sé non rammento molto, se non che La Porta fu brillante e a suo agio. Ricordo però una cosa che mi disse per telefono e mi si conficcò nella mente. Gli Emo all’epoca erano guardati con un po’ di allarme, se non erro perché si tagliuzzavano i polsi. O almeno così si diceva. La Porta, invece, me lo disse lui e forse lo ripetè in trasmissione, vedeva negli Emo una funzione, l’annuncio dell’Albedo, cioè un
concetto, credo appartenente al linguaggio alchemico, che indica il passaggio dalla notte al giorno, e quindi la preparazione di una fase di risveglio collettivo e universale. Sembrerà strano, ma quella frase pronunciata da La Porta al telefono me la sono portata dietro per anni. Mi ha lavorato interiormente. Opera tutt’ora dentro di me, con la forza condizionante e durevole di un meme potente e di un vero e proprio atto magico. Nel senso che, pur vedendo moltissima notte dentro e intorno al mondo, grazie a La Porta ho sempre pensato all’Albedo come una possibilità sempre contenuta, anzi naturalmente contenuta, in ciò che consideriamo «notte». Poi, un giorno, rividi La
Porta alla stazione ferroviaria di Piacenza. Non so se con la giacca di camoscio con le frange, non ne sono certo. Sicuramente con una lunga catena di metallo, che dal portafoglio cadeva e descriveva una lunga parabola fino a tornare al passante dei pantaloni. Dato che per me era diventato una specie di mago, considerai quella di Piacenza come un’apparizione.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).