Il volo MH370 e la fantascienza

Pray for MH370

Ritrovare il Boeing 777-200ER matricola 9M-MRO è molto importante per due motivi. Il primo ovviamente è conoscere li destino delle 239 persone a bordo. Il secondo è ritrovare la scatola nera, cioè le due scatole che registrano i dati di volo e che sono la più grande invenzione per il volo dopo l’aereo stesso. È grazie alla disponibilità di queste informazioni se ogni incidente accaduto finora ha reso il volo sempre più sicuro: conoscere le ragioni di un evento come quello, ancora parzialmente compreso, del volo MH370 della Malaysia Airlines, è fondamentale per modificare e rendere più sicuri tutti i voli successivi. Così come lo è sempre stato in passato. Le ipotesi e i chiacchiericci sono solo tali: chiacchiericci quando va bene, fantascienza negli altri casi.

Il problema maggiore, per quanto riguarda questo incidente, è che ha una carica di mistero, nel senso di “non conosciuto”, che sta facendo crescere illazioni e ipotesi sempre più fantascientifiche. Alcuni dati appaiono in contraddizione con altri, c’è il rischio che altri ancora siano incompleti o inquinati, con il risultato che si pensa a qualsiasi cosa. Ad esempio a dirottamenti, attacchi, possibili atterraggi in piste di fortuna (ripeto: piste di fortuna, perché trovare un aeroporto con una pista in cui nessuno si accorge che è atterrato un Boeing 777 nell’era di Internet non funziona più neanche in Asia minore e in Estremo Oriente). Si sentono tantissime cose, insomma. La maggior parte è implausibile. E se invece risultassero reali, ben venga: è fondamentale avere accesso a dati reali, empirici, non soltanto e non più alle teorie più strambe.

Dal mio punto di vista quel che sta accadendo è interessante anche perché adesso si possono studiare i meccanismi di formazione della notizia in un ambiente particolare: quello a prescindere dalle informazioni o dai dati in nostro possesso, ovvero in un ambiente che sistematicamente sovrastima e interpreta nel modo meno plausibile quel che sappiamo. L’aeroplano, mi diceva una volta uno psicologo, è un contenitore delle nostre ansie: si ha paura del volo per altri motivi che proiettiamo nella situazione in cui siamo privi di controllo sull’ambiente circostante, non per il volo in sé. E sul destino di questo volo MH370, un volo notturno sui mari della Malesia, stiamo tutti proiettando molto, moltissimo.

Proviamo invece a ragionare sulla base di quel che sto leggendo (quindi cercando di capire cosa diciamo, non cosa è successo). Allo stato dei fatti tra i commentatori ci sono due possibili approcci per cercare di formulare una teoria su quello che è successo, attendendo poi che la scoperta dei fatti (la parte “sperimentale”) verifichi o falsifichi quello che si è pensato. Da un lato si sono costruite le tesi più complesse e astruse, dall’altro si sono costruite tesi le più semplici e dirette. Si può cioè usare o meno il rasoio di Occam, che suggerisce di non formulare ipotesi complicate ma di semplificare.

Non tutti sono in possesso di tutte le informazioni relative al volo MH370, non tutti sono in grado di avere accesso a quel materiale e non si sa neanche quanto sia stato effettivamente reso pubblico, quanto no e quanto possa essere impreciso o fuorviante. Di solito gli incidenti aerei (non gli attentati che hanno avuto successo, dico invece gli incidenti) accadono per una serie di con-cause, non per una singola ragione. Non c’è motivo di ritenere, sostengono alcuni, che questo sia stato un attentato o un dirottamento perché complica molto l’analisi di quello che è successo, e si poggia solo su dati (la telemetria dei motori e i “ping” di un satellite) che possono avere anche altre spiegazioni più semplici.

L’aereo, dopo il decollo da Kuala Lumpur e una volta in quota per andare a Pechino, pochi secondi dopo il passaggio di consegne via radio tra due centri di controllo aereo in quota differenti, ha spento tutti i transponder ed è scomparso dai radar secondari (quelli che hanno informazioni sui dati del volo grazie, appunto, ai transponder) diventando un semplice “bip” sui radar primari (quelli che “sparano” microonde nel cielo e verificano l’esistenza o meno di oggetti grazie alla eco, imprecisa e ondivaga). Radar civili e militari potrebbero aver visto o no l’aereo in volo. I dati si intrecciano con quello dei satelliti e con la considerazione che l’aereo, anziché essere precipitato in pochi secondi, avrebbe continuato a volare per più di sette ore (il volo aveva una durata prevista di sei), perlomeno sei i ping dei satelliti sono precisi e riferiti al volo giusto (fatto non completamente assodato).

Ci sono come dicevo varie tesi, varie ipotesi, suffragate da non-fatti. Ad esempio: terrorismo, per vari motivi. Tra cui quello che il “terrore” fa sensazione e vende più di un incidente. E poi perché spiega, offre una closure: non è stato un caso (o meglio una serie concomitante di circostanze), invece è stato un atto deliberato, pianificato, frutto della mente di un pazzo, di un terrorista. Chi potrebbe essere quest’uomo, questo nemico della civiltà? Spunta un candidato apparentemente “per bene”: l’esperto comandante del volo. Indizi o prove? Il comandante era un pazzo scatenato perché aveva un simulatore di volo in casa, che dimostra il suo desiderio di apprendere tecniche malevole. Un incrocio tra i dirottatori dell’11 settembre e il fanatismo di Yukio Mishima. Il suo vice era giovane, integralista e scapestrato: imbroccava anche le turiste sudafricane e si facevano le foto in cabina (indizio più di una sessualità vitale più che non un desiderio di suicidarsi o portarsi al di fuori della legalità) e probabilmente era anche lui un poco di buono.

Il dirottamento, si dice in questa teoria, è stato fatto da gente “espertissima” dell’aereo, che è riuscita a fare zig-zag tra i radar, saltando di quota e di direzione, andando di qua e di là, con obiettivo non meglio identificato. E senza conseguenze empiriche, dato che sono tutti scomparsi. Che poi è il motivo per cui la teoria del dirottamento affascina molti lettori, ma più per il suo aspetto da “triangolo delle Bermuda” che non per il suo valore reale.

Il finale più probabile anche di questa ipotesi comunque è che l’aereo si sia schiantato: o perché abbattuto da un caccia in volo di intercettamento per la sicurezza dello spazio aereo di qualche paese che preferisce non dirlo (ci sono 22 nazioni coinvolte nell’aerea e nella ricerca dell’aereo malese: non tutte democrazie, non tutte desiderose di aprire un incidente internazionale), o perché abbattuto nello scontro fra passeggeri e dirottatori, o perché semplicemente non è riuscito ad atterrare e si è invece schiantato.

Altra ipotesi, più semplice, che gira in alternativa: un evento traumatico a bordo che è stato la causa, la conseguenza e la fine dell’aereo. Un incendio elettrico in cabina, ad esempio, che avrebbe provocato la necessità da parte dell’equipaggio di fare tre cose: staccare tutti i quadri elettrici e procedere al riavvio un circuito alla volta, per capire quale fosse in corto; non usare l’ossigeno perché in caso di fuoco in cabina non si può usare l’ossigeno; infine la scarsissima autonomia per cercare di atterrare mentre il fumo (in un ambiente in cui non si possono aprire i finestrini per “cambiare l’aria”) diventa tossico. In questa ipotesi il comandante dell’aereo avrebbe preso la direzione della più vicina pista alternata (ipotesi compatibile con il primo cambio di rotta). E poi potrebbe essere successa qualsiasi cosa, sino all’epilogo tragico: equipaggio e passeggeri fuori combattimento, aereo che procede livellato in qualche modo dai sistemi di navigazione di bordo, sino all’esaurimento del carburante o all’impennata e perdita di assetto provocata da una manovra dovuta dall’incendio alle componenti della cabina di pilotaggio.

Tra queste due ipotesi (dirottamento, incendio di bordo) c’è un mare di altre ipotesi e possibilità. Per questo ritrovare le scatole nere è importante. Dalle informazioni registrate si potrebbe risalire con tutta probabilità a una spiegazione reale dei fatti e questo avrebbe importanti implicazioni sul futuro del volo, sul futuro di tutti i voli. Molto più questo che le ricostruzioni da “detective in pantofole” e le teorie complottiste equamente distribuite fra rete e giornali.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio