E io che volevo solo riascoltare Cara

Fosse stato per me, ieri me ne sarei stata volentieri in casa a piagnucolare, sola come certe occasioni richiedono. Invece no. Ero al tredicesimo ascolto di Cara e per la tredicesima volta mi stava venendo da piangere proprio su «quanti capelli che hai non si riesce a contare sposta la bottiglia e lasciami guardare se di tanti capelli ci si può fidare», quando un amico mi manda un messaggio con queste parole: «e in mezzo a questo mare cercherò di scoprire quale stella sei perché mi perderei se dovessi capire che stanotte non ci sei». La sera dei miracoli. Giusto, c’è anche questa. Ma come ho fatto a dimenticarmene? Mi asciugo il moccolo e la metto su. Venti minuti e un altro messaggio, da un altro amico: «Banana Republic: avevo vent’anni». Faccio il calcolo: no, ne avevo molti meno. Però ha ragione: Banana Republic era il disco che all’epoca ascoltavano quelli più grandi, quelli che in spiaggia facevano cose chiusi dentro le cabine che noi piccoli avremmo capito solo qualche anno più tardi. Mezz’ora e suona il telefono. È un’ex compagna di scuola: «Ma ti ricordi in gita a Parigi quanto abbiamo consumato quella cassetta che ci aveva prestato Massimo di quinta C e dove c’era Disperato Erotico Stomp?». No, non me lo ricordavo, ma adesso che lei mi ci fa pensare sì, mi ricordo di Parigi e di Massimo e di me e Massimo che ci baciamo a Parigi. E mi ricordo quella sua vecchia cassetta consumata e mi ricordo che se anche non è che noi minorenni capissimo benissimo di cosa si stava parlando ci piaceva comunque cantare quel verso «te ne sei andata via con la tua amica, quella alta grande fica»  perché intuivamo che ci fosse una piccola rivoluzione, dentro quella canzone. Mentre penso questo mi arriva un messaggio da un altro amico «e non sai lo sdoganamento con quel “è partita la mia mano”». Ecco, appunto. Altro squillo: questa volta è un ex fidanzato. Mi ricorda che Anna e Marco è stata brevemente la nostra canzone. Non rispondo, perché dovei confessargli che in realtà io Anna e Marco già la sapevo: l’avevo imparata a memoria a forza di sentirla suonata dagli amici dei miei genitori, d’estate, sulla spiaggia, davanti al fuoco a mangiare pesce appena pescato. È  forse uno dei ricordi più belli della mia infanzia, e quella è probabilmente la prima canzone che io abbia mai imparato a memoria, la prima in assoluto.  Metto giù, controllo la mail. «Ti prego metti ad alto volume Anidride Solforosa: fa tanto male che fa bene». Cavolo, questa non me la ricordavo: ecco qui un bel ricordo nuovo di zecca, fatto all’istante ché adesso tutte le volte che ascolterò Anidride Solforosa mi verrà in mente chi me l’ha fatta ricordare. Vado su twitter: cinque messaggi privati. In uno c’è un verso di Telefonami tra vent’anni. In un altro uno di L’anno che verrà. In un altro c’è un verso di Henna, negli ultimi due la stessa frase di Quale allegria: «se ti ho cercato per una vita senza trovarti senza nemmeno avere la soddisfazione di averti per vederti andare via». Ad ogni canzone, ad ogni parola, è appiccicato un ricordo, sia esso un bacio, un volto, un posto, una sbronza. È lì che improvvisamente realizzo: gran parte delle canzoni con cui sono cresciuta sono sue. E io che volevo solo riascoltare Cara.

 

Simona Siri

Vive a New York con un marito e un cane. Fa la giornalista e ha scritto due libri: Lamento di una maggiorata (Tea, 2012) e Vogliamo la favola (Tea, 2013). Segue la politica americana, il cinema e le serie tv. Ama molto l'Italia e gli italiani, ma l'ha capito solo quando si è trasferita negli Usa.