E cos’è l’amore?

Solita vita professionale, ispettore ministeriale e scrittore, calamità naturali e convegni. In un modo o nell’altro parto sempre, campagne alluvionate e convegni universitari. Questa volta mi toccava: l’impronta del trauma, per sottotitolo una cosa così: come il trauma influenza le nostre vite. Dovevo parlare di uno splendido racconto della Munro, Miles City Montana. Bene. Arrivo all’aeroporto di Bergamo e individuo un signore con il cartello: Pascale. Eccomi, dico. Due minuti e sono in macchina e subito mi ritrovo a constatare una particolarità del mio accompagnatore, è bergamasco puro, ma tenta di parlare (maldestramente) in napoletano: ue’ allora? Che si dice, che si dice? U’ Napoli che fa? ‘Sta coppa dei campioni? Ma perché parli in dialetto? Gli chiedo. Sei Napoletano? No, bergamasco, ma mia moglie è di Ercolano. I napoletani mi stann’ simpatici. Troppo. Simpatia o meno, dopo tre minuti di conversazione su questo tono ho cominciato a sentire il desiderio di strozzarlo. Che equivoco è? Cos’è? Mi porto la maschera di Pulcinella dietro e le persone si sentono in dovere di corrispondere alle aspettative della maschera? Mah? Niente da fare il mio accompagnatore è convinto della simpatia dei napoletani. E i bergamaschi? Chiedo. Guarda, mi dice, sono di una puntualità insopportabile: vai al ristorante, arrivi con cinque minuti di ritardo e fanno storie, guarda siamo un popolo messo male, e che cazzo, un po’ di leggerezza, di calore, invece quando vado a Napoli… il tempo non passa mai.

Piccolo problema che il mio accompagnatore ignora: – oltre all’altro problema: la fiducia nella simpatia dei napoletani, concetto aberrante – io sono puntualissimo. Non voglio tirare in ballo il discorso del rispetto degli altri, sono puntualissimo perché sono nevrotico. Arrivo all’aeroporto un’ora e mezza prima, alla stazione un’ora. Mi sveglio presto, ma tanto non dormo mai e almeno mi prendo delle soddisfazioni, come per esempio guardare le persone che corrono tirandosi i trolley, perché sono in ritardo. Cosa ti hanno insegnato i tuoi genitori?, chiese una giornalista a Fanny Ardant. A non correre sotto la pioggia perché non è dignitoso, rispose lei. Cosa mi ha insegnato la mia nevrosi? A non correre quando si sta perdendo il treno. Dunque ad avviarmi con largo anticipo: comunque sono credo l’unico a non aver ottenuto nessun beneficio dalla (democratica) pratica del web check in. Lo faccio 24 ore prima ma arrivo sempre con un‘ora e mezza di anticipo, come se dovessi ancora farlo, appunto.

Sono puntuali i bergamaschi? Chiedo. La Madonna! mi risponde: sono esagerati, non ci si crede. Non appena arrivo in albergo chiedo alla reception: quando tempo ci vuole per l’università? Cinque minuti a piedi, è qui a due passi. Ma, insisto io, è vero che siate molto puntuali voi bergamaschi? Mi guarda serissimo: molto puntuali. E qua, confuso da quest’eccesso di puntualità altrui, è successa una cosa strana: non mi ricordavo se il convegno era alle diciassette o alle diciotto. Ho chiamato l’organizzatrice: niente, telefono staccato. Ma non è che ho capito male? Magari è alle cinque. Come per il gas, è chiuso o aperto? Vabbè, dai, erano le 16,45, mi avvio, cinque minuti. Andatura media, o arrivo puntuale o un’ora prima. Nella norma.

Siamo o non siamo liberi di scegliere? Haynes (un neuroscienziato) ha usato la risonanza magnetica funzionale (una macchina che fotografa l’attività del cervello), così da osservare la nostra mente nell’atto della decisione, per esempio: premi un tasto blu o rosso? Cosa sorprendente: se qualcuno osserva il mio cervello può prevedere (a seconda delle aree celebrali che si illuminano) quale bottone sto per premere, con un anticipo che arriva fino a dieci secondi. Cioè dieci secondi prima che io premo il bottone (rosso o blu) ed esprimo attraverso l’atto la mia decisione (e la mia consapevolezza), nel mio cervello, per vie biochimiche, la decisione è stata già presa, solo che io l’ignoro. Quindi, ho solo la sensazione di prendere la decisione, la consapevolezza è una costruzione ex post, la decisione ex ante. Quello che ignoro dunque sono le complesse cause che mi hanno portato a scegliere (e non solo il tasto rosso e blu). Cosa orienta la mia scelta? Il mutevole abitante del mio solito involucro, secondo Silvia Salemi (chissà perché questa splendida canzone non ha avuto successo).

Il trauma, penso io, ecco cosa orienta la scelta – ma forse la mia è una deformazione professionale, voglio dire con tutte quelle calamità che vedo. Il trauma: un evento, che ti coglie impreparato, senza strumenti di protezione. Per tutta la vita cerchi di trasformare quel trauma in dolore. Perché il dolore perlomeno può essere condiviso – ma forse pure questa è una deformazione professionale, stimo i danni delle calamità naturali e porto i soldi che occorrono per sistemare le frane. E poi faccio anche lo scrittore, quindi ho una certa abitudine alla rappresentazione del trauma- anche se non scrivo un romanzo da sei anni, vabbè.

Naturalmente la questione della libera scelta per essere raccontata, voglio dire, per essere raccontata alla luce della risonanza magnetica, necessità di nuovi strumenti narrativi. Quali e quanti fili si ingarbugliano? Quali condizioni assicurano una vocazione? Da dove viene l’atto? Come accadono le cose? Magari gli accadimenti partono da altri accadimenti, ma lontani, difficili da riconoscere che però, strada facendo, si addensano attorno a un nucleo. Questo nucleo è appunto un trauma? Che funziona da calamita? E come raccontiamo questi momenti che precedono l’attrazione? Il solito modello a tre atti? Ma dai… non funziona più, se non in rare occasioni. Ci vuole un nuovo modello integrato, narrativo, filosofico, scientifico, inquieto, duttile, aperto, e mentre pensavo tutte queste cose devo aver rallentano il passo e sono arrivato in facoltà un po’ distratto.

L’impronta del trauma, eccomi qua. Solo che sulla locandina c’erano tutti i nomi dei partecipanti, ma non l’ora di inizio. A questo punto sento dei passi concitati che per il noto effetto Doppler si avvicinano, vengono dalla tromba dalle scale e il tocco (tra tacco e pavimento) è come un’inquietante acuta ascesa di pentagramma. Guardo su e vedo una ragazza che mi indica: è lei? Mi chiede concitata. Sì, dico. Per il convegno? Sì, ma non era alle sei? No! No! Che dice? Alle cinque! La stanno aspettando, forza venga. Guardo l’orologio, le cinque e cinque. Porca zoccola! penso, che figura di merda. Guardo con aristocratica e composta soddisfazione quelli che corrono perché in ritardo e ora mi daranno del meridionale proprio a me che sono puntualissimo più di un bergamasco. Ero così turbato dal ritardo che nemmeno ho guardato la ragazza che mi precedeva con quei tacchi alti e il pantalone attillato (insomma, non l’ho guardata bene). Non appena sono entrato nell’aula ho visto in cattedra un tizio arrabbiatissimo che ha allargato le braccia: è tardi.

Curvo, mortificato, brutto e meridionale. Così mi sono sentito. Tutti che mi guardavano – esattamente come guardo io quelli che corrono con i trolley. Scusate scusate, ho detto, mi sono seduto. Nemmeno mi sono schiarito la gola, nemmeno ho bevuto, ho sistemato il microfono, riacquistato l’aria professionale: chiedo scusa, dico, e volevo dire: e che sarà mai dieci minuti di ritardo, non esageriamo adesso, ma la faccia severa di quello accanto a me mi scoraggia dall’azione, e comincio, il racconto di Alice Munro. In questi anni di presentazioni ho imparato a sentire il pubblico: sto piacendo? Sono interessati? Annoiati? Eppure questa volta non capivo, una strana sensazione dominava il mio pubblico: davvero strani ‘sti bergamaschi, ma com’è? A un certo punto mi sento afferrare il braccio: è la mano del severo docente alla mia sinistra. Mi scusi, mi dice, la prego di rimanere sull’argomento, lei già arriva tardi, poi ci parla del dolore… Come parlo del dolore? Di cosa dovrei parlare: un convegno sul trauma… Trauma? Mi chiede. Trauma, si. No, questo è sulle ristrutturazioni civili nelle città di origini medievali. Ah! Forse ho sbagliato convegno. Infatti il mio era alle sei. E come mai si trova qui allora? È una lunga storia.

Tutti a ridere. Pure il severo professore accanto a me. Prego, continui, ha detto: ma lei è napoletano? Sì, cioè, casertano, però vivo a Roma dal 1989… Siete simpaticissimi, voi napoletani. Continua, continua, mi dicevano tutti. Da una certo punto di vista l’impronta del trauma era più interessante delle ristrutturazione civili ecc. E così ho cercato di fare prima di tutto il simpatico, poi di pensare a un raccordo, come dire, tra il trauma e le ristrutturazioni. Ho improvvisato ma sono stato bravo, sentivo che stavo a cavallo e cavalcavo un’onda, anche se non so andare a cavalcare e nemmeno cavalcare un’onda, anzi ci passo sotto: è meglio. Ho preso un sacco di applausi.

Nell’attesa del mio (vero) convegno, ho passeggiato su e giù per il corridoio (avevo più di mezz’ora di tempo ed è bello avere tempo), ho parlato con la bellissima ragazza che ha causato l’equivoco (ora con più tempo davanti, la vedevo bene e mi piaceva pure) e mi è venuta in mente la canzone Samarcanda. Che Vecchioni ha tratto da un’antica leggenda russa. Dopo una battaglia il bel e valoroso soldato si rilassa tra i fuochi dell’accampamento, quando all’improvviso scorge la morte. La morte lo guarda con sguardo cattivo. Il soldato spaventato va dal re: ho visto la morte, mi guarda con malignità, ti prego fammi fuggire via di qua. Il re vede sul volto del suo soldato valoroso lo spavento e lo accontenta: gli regala il cavallo più forte e veloce (ecco forse da dove arriva l’immagine del cavallo, ho pensato, dalla cavalcata al convegno) e il soldato tre giorni e tre notti cavalca fino alle porte di Samarcanda. Ma lì, triste sorpresa, c’è la morte. No! Dice il soldato, ti ho visto tre giorni fa che mi guardavi con uno sguardo cattivo, sono scappato e ti ritrovo qua. Ma no, dice la morte, non era uno sguardo cattivo, ti sbagli soldato, quello, il mio, era solo uno sguardo stupito, perché l’appuntamento era qui, oggi, a Samarcanda, e tu eri lontanissimo e ho creduto che non ce l’avresti mai fatta ad arrivare qua in tempo. Il filosofo francese Baudrillard, nel suo libro, Della seduzione, la interpreta così: la seduzione è la maschera della morte. Sedurre non significa attrarre a sé, no, al contrario, significa confondere i segni. In questa storiella tutti i protagonisti confondono i segni, attribuiscono allo sguardo dell’altro un valore sbagliato. La seduzione e l’amore che essa produce non è nient’altro che il tentativo di cavalcare per tre giorni e tre notti, cercando (e credendo) di sfuggire al nostro destino. In tre giorni si può fare tanto. Sentirsi liberi di scegliere. Dunque il trauma è questo: un’impronta della morte. Il rimedio? L’amore. Ma l’amore comincia dalla seduzione, e questa è solo un equivoco. Come parlare a un convegno sbagliato.

Al convegno, quello vero, ho cambiato traccia. Ho raccontato di quello che mi era successo, l’equivoco (i napoletani perdigiorno che invece sono puntuali, tanto precisi da sbagliare convegno) della mia puntualità che altro non è che il tentativo di avere più tempo, perché ogni viaggio, ogni cavalcata è in direzione di Samarcanda (così crede il mio inconscio) ed è meglio mascherare la corsa con una bella storia e sono finito a parlare non del trauma ma dell’amore che comporta una miscela di devozione, coercizione, accettazione, timidezza, piacere, paura e ironia, e questo quando va bene. Che l’amore quando inizia è sempre romantico, e i teenager, per esempio, non appena cominciano a sperimentarlo possono trovare, l’amore, spaventosamente delizioso e spaventosamente ignoto. E allora, cos’è l’amore? Un sentimento, un’ambizione, un impegno, una personale lotta interna, un contratto sociale? Tutte queste cose e anche il tentativo di reagire a un trauma, forse. Il trauma della morte. Soltanto l’amore permetterebbe di dimenticare temporaneamente la terribile realtà del nostro essere mortali. Ora, la scienza sostiene che l’amore sia un’alterazione cerebrale, una errata percezione della realtà, una confusione di segni (e di convegni), insomma, e solo grazie a questo sbaglio percettivo, possiamo permetterci di inventare una storia e di cavalcare verso una città lontana, e inoltre, solo rafforzando la storia (credendo che sia quella, quella giusta), possiamo formare una coppia e avere dei figli. Dunque attraverso l’amore possiamo fuggire cavalcando per tre giorni e tre notti dalla morte, prima di ritrovarla davanti alle porte di Samarcanda, e solo per sentirci dire: ma no t’eri sbagliato, non ti guardavo con malignità, anzi… ho sbagliato, sono anche io umana, sai. Che bell’inganno che sei, anima mia.

L’amore romantico è il tentativo della nostra mente di farci credere che quella coppia potrà cavalcare per sempre (a volte riesce nell’intento, altre volte il cavallo ci sfianca), per sempre, anche quando saremo morti, guardate il finale della Tigre e il dragone (ho detto al convegno) di Ang Lee, se non ci credete. Ma anche quell’amore è tutto frutto di uno sbaglio affascinante. Noi pensiamo di sapere, ma è come l’esperimento dei bottoni rossi e blu: crediamo di scegliere e inventiamo storie per sostenere la scelta e attivare la seduzione, ma tutto già deciso dalla morte? E la morte è nient’altro che il famoso cuore? Quello a cui affidiamo le sorti dei nostri amori, e degli inganni, quelli naturali e quelli specifici?

L’ha presa alla lontana, mi ha detto uno psicanalista. Ma visto e considerato la concatenazione di eventi che mi avevano portato a parlare d’amore a quel convegno, dopo essere passato per le ristrutturazioni edili, beh, ho pensato: no, non l’ho presa da così lontano.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.