E a metà ottobre il sindaco disse «Agire in fretta»

Ho un osservatorio privilegiato. Abito, a Milano, sopra una piccola zona pedonale dove si concentrano sei locali: cinque restano aperti la sera. No, meglio dire la notte. Dopo la fine del lockdown, a maggio, la strada, anzi la piazzetta, ha iniziato a ripopolarsi. La gente si ammassava fuori dai locali anche prima della pandemia ma dopo, se possibile, tutto si è amplificato. È avvenuta quasi una corsa al liberi tutti, anzi al chissenefrega. I gestori dei locali dovevano recuperare il tempo, e i soldi, perduti. Quindi via le chiusure settimanali e ciao anche agli orari di chiusura (non tutti i locali ma alcuni sì).

Il problema non era dentro, non è mai stato quello. E nemmeno i tavolini all’aperto. Il problema è la massa di gente radunata ogni sera, dalle sette di sera fino alle due del mattino (ma il venerdì e il sabato anche oltre). Centinaia e centinaia di persone che facevano quello che le persone fanno quando si ritrovano in luoghi ristretti. Parlano, ridono, urlano, si toccano, si abbracciano. Sputacchiano (lo so è brutto da dire ma non trovo un altro termine).
Alcune sere, e non scherzo, sembrava di osservare un concerto, un happening, il concentramento di un corteo. Come se il virus non potesse più circolare in nessun modo. Come se non fosse mai esistito. Come se mai sarebbe potuto tornare.

Ti chiedevi: ma se i concerti non possono esserci, se allo stadio non puoi andare, se al cinema vai distanziatissimo, perché qui invece vale tutto? Ovviamente le mascherine erano sparite. Le aveva uno su dieci, forse uno su quindici. Non parlo di ragazzini. Chi vive a Milano sa che prendere da bere in un locale la sera costa. Lì, fuori dai locali, c’erano trentenni, quarantenni, cinquantenni. Ovviamente le segnalazioni al Comune sono state decine. Un paio di sere è comparsa un’auto della polizia locale, hanno guardato e se ne sono andati. Sono state inviate foto al Comune come a dire: ma siete consapevoli? Niente.

A settembre è stato anche peggio. Ci sono stati venerdì o sabato sera che per arrivare al portone di casa dovevi quasi fare a spintoni. E tu, con la mascherina, ti sentivi in minoranza, la pecora nera disfattista. Anche quando ci sono stati appelli a usarle le mascherine. Anche quando sono diventate obbligatorie. Altri appelli al Comune, altre segnalazioni. Niente. Ti veniva voglia di dire “Ma cosa state facendo, cosa cazzo state facendo?”.

Non c’è niente di statistico in tutto questo, nulla di scientifico. Solo il racconto di come sono andate le cose in un piccolo spicchio d’Italia. Poi una mattina ho aperto il giornale e il sindaco Beppe Sala diceva: «Bisogna agire in fretta». Agire in fretta. Ora.
Ma tu veramente fai?

Stefano Nazzi

Stefano Nazzi fa il giornalista.