Dovere la vita

Ieri è morto Mauro Rossi, a cui Sofri, quello anziano, e tutti noi Sofri siamo molto debitori.

Ciascuno di noi sa di dovere la vita a qualcuno, a una madre che l’ha messo al mondo, a un padre, e poi, in modi diversi, a tanti altri. A qualcuno succede di andare molto vicino a morire, e di dovere la vita a una persona in particolare. A me è successo con Mauro Rossi. Agonizzavo una notte in una cella di carcere con l’esofago lacerato, fui trasportato in ospedale, perdetti i sensi e li ripresi brevemente, in una specie di delirio. Avevo di fronte un uomo in camice con una faccia bella e intelligente. Disse che bisognava operarmi, d’urgenza. Chiesi se avrei potuto lasciarci le penne. Mi rispose di sì. Ne provai una gran calma. Domandai se usassero avvertire i famigliari. Volevo confusamente risparmiare ai miei di allarmarsi. Gli chiesi di aspettare a farlo, e alla fine, comunque andasse, di “fare un comunicato all’Ansa”. Ne avremmo riso di cuore molto tempo dopo. Poi sprofondai, e riemersi dal coma solo a molti giorni di distanza. Quel medico franco dalla bella faccia che mi salvò la vita era un campione della chirurgia dell’esofago, a capo di un dipartimento dell’ospedale pisano, e quella notte era a casa sua, a San Giuliano, a pochi chilometri. Questa catena di circostanze fu completata dalla rarità del mio malanno, la Sindrome di Boerhaave, di cui Rossi mi avrebbe inviato una divertita relazione, elencando la mostruosa quantità di cibi e bevande che avevano causato rottura dell’esofago e morte dell’ammiraglio Van Wassenaer, sul cui caso nel 1724 la sindrome venne identificata. La mia era stata una cena carceraria, e astemia. Avevo una prima edizione degli Elementa Chemiae del dottor Boerhaave e la trasmisi al dottor Rossi.

Ebbi a lungo con il mio chirurgo una dimestichezza quotidiana, via via che dalla paranoia farmacologica rientravo sulla terra; da quando era un personaggio delle mie allucinazioni (mi sembrava un formidabile D’Artagnan, anche per i baffi e le armi da taglio che gli attribuivo) a quando tornò a essere una squisita persona di questo mondo. Devo a lui il ripensamento sulla chirurgia, che, nella sua metafora politica e sociale, avevo discusso in un libro intitolato “Il nodo e il chiodo”. Mauro Rossi riscattava il chiodo, e ricuciva la ferita. Siamo stati amici, benché con l’asimmetria ineliminabile fra chi ha salvato e chi è stato salvato. Fuori dalle sue mani non sarei sopravvissuto. Questo rende più pungente il mio dolore: perché era tanto più giovane di me, e perché la sua vita valeva di più. L’ultima volta che gli feci visita a Pisa avevo scoperto di avere un tumore alla prostata. Glielo dissi, poi restammo a parlare, dei suoi ragazzi, e della mia compagna, che si era ammalata quando ero ancora convalescente, e ne era morta. Mauro mi disse allora con semplicità che anche a lui era stato diagnosticato un melanoma, e citò, un po’ ironicamente, le statistiche pertinenti a un caso come il suo. Non ci siamo più sentiti. Vogliamo credere che l’assenza di notizie sia davvero una buona notizia. Fino a mercoledì sera. Ne ho provato un dolore e un disagio, come quando si sente che il mondo si va svuotando delle persone che sono più importanti per noi. Ho pensato che non sapevo quasi niente di Mauro Rossi, e mi ha preso un’ansia di sentire i racconti di chi gli è vissuto accanto. E insieme mi pare di averne saputo molto, quello che rende essenziale un incontro casuale, e quando non potrà ripetersi più lascia al sopravvissuto un senso di ingiustizia. E di gratitudine.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).