Cosa si intende per cucina italiana?

Il (mantovano) Alberto Grandi insegna Storia delle imprese, Storia dell’integrazione europea e ha insegnato Storia economica e Storia dell’alimentazione, all’Università di Parma. Ho letto due suoi libri (Denominazione di origine inventata e Parla mentre mangi, entrambi editi per Mondadori) e qualche suo studio. Così ho pensato di fare due chiacchiere sulla questione della tradizione alimentare (inventata) e innovazione (che nessuno sa ancora definire per bene).

Ma la cucina italiana ha davvero origini così antiche come si sente dire?Dobbiamo metterci d’accordo su cosa si intende per cucina italiana.

Come?
E sì, perché è evidente che i popoli che hanno abitato la Penisola fin dalla preistoria qualcosa devono pur aver mangiato, ma da qui a immaginare una continuità forte tra quello che mangiavano gli antichi romani e quello che mangiamo noi oggi ce ne passa. Così come la tanto citata cucina delle corti italiane nel basso medioevo e nel Rinascimento, a ben guardare, ha poco a che fare con il nostro sistema alimentare.

Com’era quella cucina?
Era una cucina piena di spezie e con i sapori mescolati in una maniera che noi oggi non potremmo assolutamente accettare. Mi è permessa una piccola provocazione?

E vai…
Potrei rispondere che la cucina italiana di oggi è più legata alla cucina francese nata in età barocca, piuttosto che a quella dei grandi cuochi italiani del XV e del XVI secolo, come Bartolomeo Scappi e Cristoforo di Messisbugo. È in Francia, infatti che si mette ordine nei menù e che si afferma una cucina meno speziata e in generale più equilibrata nei gusti. Questo non toglie che ci siano alcuni cibi storicamente riconducibili a una specificità italiana.

Facciamo esempi?
Pensiamo alla pasta, presente nei ricettari siciliani fin dal medioevo e dalla seconda metà del ‘600 anche a Napoli, ma solo dopo la Prima guerra mondiale la pasta comincia diventare un piatto nazionale.

Come mai?
Perché gran parte degli italiani ha scoperto la pasta in America dove veneti, lombardi, laziali, piemontesi sono entrati per la prima volta in contatto con napoletani e siciliani. Resta il fatto che la grande varietà di piatti che registriamo oggi è sicuramente figlia del benessere raggiunto nel secondo dopoguerra, fino a quel momento gli italiani hanno mangiato poco, male e in maniera monotona (basti pensare alla diffusione della pellagra in tutto il nord Italia).

E quelli che mangiavano bene?
Quelli che si potevano permettere di mangiare tanto e bene, di solito imitavano la cucina francese. Un certo nazionalismo gastronomico inizia a manifestarsi verso la fine dell’800, ma proprio come reazione all’egemonia francese, non a caso un campione della cucina italiana come Pellegrino Artusi, dice esplicitamente che noi italiani a tavola dovremmo prendere esempio da inglesi e tedeschi, cose che oggi considereremmo delle vere e proprie bestemmie, ma che circa cento anni fa erano considerate ovvie.

Vero, Instagram è pieno di video di italiani che insegnano a mangiare a inglesi e tedeschi, americani. Senti, restiamo alla tradizione inventata, mi fai alcuni esempi di alimenti o ricette nuove ma fatte passare per antiche?

Probabilmente il caso più famoso è quello della carbonara, ma ormai la storia di questo piatto, nato dopo la Seconda guerra mondiale con ingredienti forniti dai soldati americani, è nota e completamente sdoganata. Fino a qualche anno fa si raccontava ancora la leggenda dei carbonari che fin dal medioevo scendevano a Roma con la pancetta, pardon il guanciale, e le uova; da qualche parte si legge ancora questa storiella, ma diciamo che l’operazione verità si è imposta.

Altre leggende?
Poi ci sarebbero anche i tortelli di zucca, il cui primato è conteso tra Mantova e Ferrara nel nome di Isabella d’Este: a Ferrara dicono che Isabella ha imparato a farli a Ferrara dove è nata e ha portato la ricetta a Mantova dopo il matrimonio con Francesco II Gonzaga, i mantovani, al contrario, sostengono che li abbia conosciuti a Mantova e poi abbia spedito la ricetta alla sua famiglia a Ferrara. Il problema è che all’epoca di Isabella, la zucca doveva ancora arrivare in Italia… Non vorrei toccare un monumento sacro, ma anche la Pizza Margherita…

Ahia…
Con il famoso viaggio della regina d’Italia a Napoli nel 1889 non c’entra assolutamente nulla; a nessuno sarebbe mai venuto in mente di offrire o di dedicare a una regina un cibo così popolare come la pizza, che per altro era sempre bianca, con olio, aglio e formaggio.

Senti Alberto e tornando alle zone tue…tipo il Parmigiano?
Guarda, a volerla dire tutta, anche specialità italiane le cui origini antiche sono attestate da documenti storici inoppugnabili, come il Parmigiano-reggiano, hanno subito un’evoluzione radicale negli ultimi sessant’anni; le immagini del Parmigiano fino agli anni ’60 ci mostrano forme di circa 20kg, contro i 40 e passa di oggi, con la crosta completamente nera e con una pasta molto più morbida e grassa di quella attuale. Addirittura uno degli indici di qualità era la famosa goccia che il formaggio doveva fare quando veniva tagliato.

Non c’entra ma mi è venuta in mente una famosa pubblicità di un formaggio con goccia…Domanda, con tutte queste tradizioni inventate non si corre il rischio di un certo gastrosovranismo? Capisco la protezione del territorio, i brevetti per così dire e le eventuali truffe, ma in fondo quando mangiamo celebriamo le contaminazioni culturali, una cosa bella, o no?Tocchi un tema delicato. In fondo l’identità nazionale passa anche dalla cucina, è sempre stato così e non solo in Italia, ma appunto la cucina, come l’identità di un popolo, è in costante divenire. Oggi invece quello che tu chiami gastrosovranismo vorrebbe cristallizzare la cucina italiana e con essa la nostra identità culturale.

Cristallizzare, cioè bloccare ogni movimento?
Oggi prevale la pretesa assurda di stabilire una volta per sempre la ricetta vera, unica e immutabile dell’amatriciana, dei tortellini alla bolognese, della pizza napoletana e così via. Ma è assurdo. In un recente libro “Il mito delle origini”, Massimo Montanari, che è probabilmente il maggiore storico dell’alimentazione in Italia, dimostra come un piatto simbolo della cucina italiana come gli spaghetti al pomodoro, nella loro assoluta semplicità siano un esempio di contaminazione e di continua evoluzione dal medioevo ai giorni nostri. Se vai a leggerti il disciplinare del sugo all’amatriciana, addirittura si stabilisce che la padella deve essere rigorosamente di ferro e il manico per far saltare il guanciale deve essere lungo, quanto lungo non lo sappiamo…

– Leggi anche: La storia degli spaghetti al pomodoro raccontata da Massimo Montanari

Torniamo al gastrosovranismo…
Questo non è nemmeno gastrosovranismo è semplicemente il delirio di un Paese terrorizzato dal futuro che crede di mettersi al riparo dietro una tradizione che non esiste: siamo come gli abitanti di Costantinopoli nel 1453, dobbiamo convincerci a vicenda che le mura Teodosiane siano impenetrabili per poter prendere sonno. Ma così non è.

Da storico dell’economia come vedi il futuro del cibo? Visto e considerato che il mondo ospiterà a breve due miliardi di africani, 5 di asiatici mentre l’occidente è in calo demografico, insomma ci saranno altri alimenti, altre contaminazioni e c’è un modo per aumentare la consapevolezza e con essa il piacere di mangiare, oppure è più probabile che ci scontreremo sull’amatriciana?
Come dici tu, io sono uno storico e quindi sono abbastanza a mio agio quando parlo del passato e molto meno quando devo parlare del futuro, ammesso che ci sia qualcuno in grado di farlo.

Però…
Però non mi sottraggo alla domanda, perché mi pare evidente che la grande trasformazione stia già avvenendo sotto i nostri occhi; voglio dire, le nostre città sono ormai piene di sushi, kebab, ristoranti indiani, eccetera, per non parlare dei ristoranti cinesi che ormai da quarant’anni sono una parte importante dell’offerta ristorativa. E mi sembra altrettanto evidente che questi tipi di locali si rivolgano in particolare a un pubblico giovane.

L’amatriciana, scontro tra giovani e anziani…
A me pare che lo scontro sull’amatriciana sia comunque una battaglia di retroguardia, che punta a salvaguardare un mercato destinato ad assottigliarsi, non certamente a scomparire, perché ci sarà sempre un pubblico sensibile ai temi della tradizione (vera o inventata), della genuinità e che a tavola vuole vivere un’esperienza anche di carattere culturale. Ma appunto stiamo parlando di una quota marginale.

Quindi, le nuove generazioni?
Le nuove generazioni sono meno interessate a questi aspetti, per loro mangiare un piatto di tagliatelle alla bolognese o un sushi è quasi la stessa cosa, sono esperienze diverse, ma comunque appaganti. A pensarci bene, la stessa cosa è avvenuta per la mia generazione con le pizzerie, che solo quarant’anni fa per noi del profondo nord erano alla stregua dei ristoranti coreani oggi, infatti ci andavamo noi giovani di allora (ahimé), mentre i nostri genitori le consideravano una stranezza esotica assolutamente da evitare.

Ah facevate così voi del nord…però mi ricordo che a Caserta sul finire degli anni ’80 andammo con piacere a mangiare nel primo ristorante cinese, per poi lamentarsi ovvio…comunque ancora oggi le ordinanze dei sindaci contro i ristoranti etnici ci sono, no?
Le ordinanze di alcuni sindaci che vorrebbero impedire l’apertura di sushi, kebab, thai, ecc. nei centri storici delle città, mi sembrano davvero assurde; prima di tutto perché molto spesso questi ristoranti utilizzano materie prime italianissime, ma in particolare perché le nostre città sono sempre state un luogo di incontro e di contaminazione. Ancora una volta, pretendere di mettere la cultura nel freezer significa condannarla all’estinzione e con essa un pezzo importante della nostra economia. Infatti, il nostro sistema economico si sta già adeguando a questa realtà: l’Italia è il secondo produttore al mondo di riso per sushi, così come la Germania è il primo produttore al mondo di kebab. Per questo, nonostante i segnali negativi che vengono da una politica debole e miope, io rimango ottimista sul futuro: le ragioni dell’economia sono più forti degli assurdi timori di perdere l’identità o delle consolanti narrazioni che vorrebbero una cucina italiana mitizzata la migliore del mondo da sempre e per sempre

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.