Di cosa parliamo quando parliamo di servizio pubblico

La storia dell’esaurimento del contratto di Santoro con la Rai ha riaperto le discussioni sul “servizio pubblico” e su cosa sia, e rilanciato una certa trascuratezza nell’usare il termine. Ci sono un paio di cose da dire e che possono aiutare ad avere opinioni più solide.
Una è che il servizio pubblico non indica quello che ognuno di noi vuole vedere in tv. Che il ministro Castelli non voglia pagare il canone perché non gli piace Travaglio è una fesseria (lo ha detto ieri sera), così come lo è che altri italiani non vogliano pagare il canone perché non c’è più Annozero. È una concezione demagogica del servizio pubblico figlia di un atteggiamento ormai dilagato per cui i singoli cittadini dovrebbero ottenere soddisfazione di ogni loro desiderio, e le istituzioni accontentarli. Il canone è una tassa, e come tutte le tasse non viene impiegato su istruzioni di ogni singolo contribuente, né di gruppi di contribuenti, ma su decisioni di coloro che i contribuenti hanno delegato: ovvero parlamenti, governi, ed enti pubblici preposti e indicati da parlamenti e governi. E quelle decisioni si rispettano, nel senso che l’esserne insoddisfatti non può implicare l’evasione della tassa: sono state prese democraticamente. Questo naturalmente non toglie che le si possano discutere e criticare pubblicamente, e anche criticare severamente gli organi che le prendono: ma ricordandosi che tutto è figlio del risultato di libere elezioni e stabilito per legge e che non è assecondando i gusti politici o televisivi di minoranze o maggioranze che si fa servizio pubblico.


La seconda cosa è che un servizio pubblico – niente di così misterioso: sono servizi pubblici le scuole, gli ospedali, le biblioteche, le sovvenzioni a libri e giornali e cinema – è nel caso della tv quello che offre informazioni, notizie, utili per il bene della comunità. Strumenti per capire le cose, per formarsi opinioni informate, per sapere le cose che uno stato pensa sia bene che i cittadini conoscano e che formano la cultura scientifica, umanistica, politica, artistica di un paese. Strumenti per capire le cose. Come articolare quest’idea della funzione di una televisione è ovviamente materia assai discutibile e di cui deve essere incaricata una responsabile e competente direzione di quella televisione, che lascerà sempre qualcuno insoddisfatto: e non la si confonda, la materia, con una grigia e sciocca immagine di tribune politiche e notiziari meteo. La cultura, il giornalismo, il dibattito, la scienza, sono spettacolari forme di intrattenimento.
Però non si pensi nemmeno che l’intrattenimento puro faccia parte del servizio pubblico: non è compito dello stato far passare il tempo piacevolmente ai cittadini, così come non è compito dello stato sovvenzionare i campi di squash (che pure fanno ai cittadini e alla comunità più bene che non l’Isola dei Famosi o Miss Italia). L’intrattenimento, il divertimento, il piacere come ognuno se lo sceglie sono buone cose e rispettabili, ma non di quelle che hanno bisogno di tutele pubbliche o incentivi da parte dello Stato.
E meno che mai, ripeto, si pensi che far dire a ognuno quello che vuole corrisponda a un’idea di pluralismo dell’informazione: l’informazione deve essere di qualità e affidabile, e allora è giusto che sia eventualmente plurale. Ma informazioni sciatte, mediocre, superficiali, non diventano più buone perché sono tante.
Detto questo, si può anche pensare che queste funzioni non rientrino nei compiti di uno Stato o che non vi rientrino per quel che riguarda l’uso della comunicazione televisiva, o anche che sia impensabile che in Italia vengano soddisfatte degnamente: e allora si appoggiano le proposte di vendita e privatizzazione della Rai, che diventi solo un altro attore sul mercato e scelga i suoi programmi sulla base della domanda, legittimando senz’altro programmi come quello di Michele Santoro (o Miss Italia) che dimostrano di rispondere a molta di questa domanda.
Io non sono d’accordo – perché continuo a pensare che sia giusto cercare di fare buone cose per l’Italia e trattarla come un potenziale grande paese – però discutiamone facendo qualche passo indietro sull’uso piuttosto largo che abbiamo fatto del termine “servizio pubblico”.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).