Cuba, Londra e le estati dell’amore

Le sere di luglio a Londra sono interminabili. Nell’estate dell’88, per i turisti musicali di lunga tenitura (quelli da vacanze di un mese – merce sparita) costituiscono l’aperitivo di nottate memorabili: i comunicatori in città la battezzano come la seconda Summer of Love, dopo quella celebre di San Francisco più di vent’anni prima. Nella scena stanno succedendo un sacco di cose: da una parte marcia l’epidemia house, furoreggia il dibattito sui rave, i politici lanciano allarmi opportuni/opportunistici, gli “smile” proliferano nelle botteghe di Oxford Street e le discoteche del centro fanno incassi mescolando senza attenzione garage, underground e acid house. Roba interessante, ma un po’ camp per i visitatori affamati di nuove direzioni (discorso a parte meriterebbero le serate di Danny Rampling allo Shoom, nella City – ma portano fuori strada).

Il magnete musicale è un altro, scoperto in un paio di esoterici negozi di dischi di Holborn: si chiama acid jazz, oppure rare groove, ed è in sostanza la riscoperta e il consumo, a metà tra reale godimento e florilegio intellettuale, della jazz dance anni 50-60, poi confluita nel funk anni 70, archeologicamente riproposta, ma anche suonata ex novo da artisti vecchi e nuovi. Nomi? Brass Construction, Pharoah Sanders, Yusef Lateef, ma anche cose di Coltrane o di Sergio Mendes, Horace Silver fino a segmenti del modern jazz americano, Branford Marsalis, Gang Starr. I club che programmano queste cose sono due: il Wag a Soho e il Dingwalls a Camden. Entrambi, come l’intera micro-scena discografica circostante, sono dominati da un personaggio a portata di mano, raggiungibile, amico degli amici.

Si chiama Gilles Peterson, tipino piccolo e scattante, contraddistinto da una sapienza assoluta sul tema, il gusto del collezionista abbinato alle capacità del piccolo imprenditore, dell’eccellente dj e dell’organizzatore di serate. I ballerini in suits, quelli che quando si esibiscono conviene sgombrare la pista, arrivano ogni volta che lui lancia un party (probabilmente è lui stesso a convocare le formidabili coppie, quasi sempre multirazziali) e poi c’è tutta la Londra chic, in slacks e Fred Perry, coi gin tonic cari e puzzolenti. In quell’estate, mentre i dischi che Gilles pubblica dentro buste bianche e con l’etichetta in bianco e nero “Acid Jazz” passano di mano con gusto iniziatico, Peterson è il re della città e alcune serate organizzate solo col passaparola nelle ville private di Hampstead restano nella leggenda dell’estate dell’amore britannico, dove d’amore se ne trova poco in giro, ma di musica se ne scopre un sacco.

Col tempo però la scena delle rarità soul resta un passatempo per pochi, mentre gli astri nascenti dell’acid jazz trovano conveniente virare verso suoni dance meno sofisticati. E di Gilles Peterson si perdono le tracce, anche se di tanto in tanto riaffiora come dj di programmi radiofonici raffinati. Adesso però Peterson – che indossa lo stesso cap di un tempo – torna in circolo con un progetto di forte interesse per coloro a suo tempo sono rimasti folgorati dal suono di Cuba e dei suoi aristocratici musicisti da balera.

Novello Alan Lomax, Peterson ha dragato il Caribe in cerca di suoni che reinterpretino l’originale importazione Usa e a Cuba ha trovato pane per i suoi denti. Invece di concentrarsi sui veterani stile Buena Vista, Gilles ha cercato i musicisti di nuova generazione e ne ha radunato un drappello per una session di 5 giorni ai famosi Egrem Studios, con la band di Roberto Fonseca a sostenere lo sforzo collettivo. Si è cominciato con cover di Fela e standard afrocubani. Poi lo spirito della rumba s’è impossessato dei musicisti e le registrazioni sono proseguite sull’onda dell’improvvisazione.  Il risultato si chiama  “Gilles Peterson presents Havana Cultura: New Cuba Sound” e contiene, in sostanza, l’ultima possibile versione di un latin acid jazz, ballabile e funkizzato, oltre a un paio di scoperte di Peterson come Danay e Doble Filo. Il gesto produttivo con cui Peterson ha coronato l’operazione risveglia poi il senso trasversale dell’Acid Jazz delle origini: tornato a Londra ha affidato i master ad alcuni grandi nomi del remix, ottenendone riletture alternative firmate Louie Vega, MJ Cole, 4hero, Carl Cox e Philippe Cohen Solal del Gotan Project. Iniziativa notevole, in presenza di un estate da sonorizzare. Anche se non sarà la terza sotto il segno dell’amore.

Stefano Pistolini

Stefano Pistolini fa il giornalista e lo scrittore ed è autore radiotelevisivo. Collabora con Il Foglio.