Come Monti? Perché non Bersani?

«Fare come Monti, dopo Monti» era il titolo di un editoriale che avevo scritto diverso tempo fa (era il 2 marzo, per l’esattezza). Quattro mesi dopo, il Pd è ancora lì. E abbiamo paura che ci resterà un bel po’. Il primo partito del paese è nella scia dell’attività (e del successo internazionale) del governo. Tranne alcuni volenterosi giovani ammutinati, non ha una rotta diversa rispetto a quella del premier. Sente forte il diritto di salire in cabina di comando e mettersi al timone, ma in questo senso non è cambiato molto rispetto al novembre 2011: il Pd è il più forte ma troppi, fuori e dentro, non lo considerano in grado di mettersi in prima persona alla guida del paese. Una percezione che è soprattutto una auto-percezione, e che rischia di diventare un complesso. Anzi lo è già.

Le primarie, da che erano grande strumento di mobilitazione e protagonismo, sfumano per il semplice motivo che non c’è alcuna certezza (casomai molti dubbi) che il vincente fra Bersani e Renzi sia poi il candidato vero per palazzo Chigi. Iniziative come quella di ieri di alcuni parlamentari (un appello “montiano” regalato al Corriere) mettono duramente ancorché implicitamente in discussione la leadership di Bersani, senza però prefigurare alcuna alternativa. Monti, come ha detto lui stesso ieri, non è in campo come successore di se stesso (casomai di altri, in altre cariche istituzionali).

In realtà, sulla linea di continuità (“fare come Monti, dopo Monti”) l’uomo di punta del Pd continua a essere il suo segretario. Questa stagione politica Bersani l’ha subita, però poi l’ha gestita con coerenza e tenacia. Ha liquidato Di Pietro, alleanza ereditata dai predecessori. Ha avuto perfino una utile rottura a sinistra, con i giovani della sua segreteria. Ma c’è qualcosa che gli impedisce di imporsi come continuatore di una “linea Monti” arricchita di sociale e redistribuzione del reddito.

Possono entrarci la biografia, un certo continuismo interno, il rapporto forte con la Cgil, tanti fattori. Ma ci sono momenti in cui traspare il vero freno di Bersani: lo pone lui, a se stesso, quando di fronte all’enormità del compito di salvare l’Italia si nega il vezzo di tanti capi politici che pretendono (riuscendovi talvolta) di imporsi come più forti, capaci e risolutivi di come siano in realtà. Sono i momenti migliori di Bersani, quando escono fuori la qualità umana, il senso del limite. Però cominciano a essere un problema per il suo partito, che avrebbe tanto bisogno di poter dire agli italiani: sì, uno migliore di Monti esiste, e ce l’abbiamo noi

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.