Chi ha sbagliato su Rossella Urru

Caro Marco Bardazzi, scrivo direttamente a te perché cerco da tempo di interrompere questa rispettiva autosufficienza per cui giornalisti professionisti raccontano ai loro lettori tradizionali che la rete peggiora la qualità dell’informazione ed esperti della rete o blogger scrivono ai loro lettori più tecnologicamente alfabetizzati che i giornali sono cialtroni e inaffidabili. Tu hai scritto ai tuoi lettori la prima cosa (no, dici di no, e di questo prendo atto), e loro fanno sì con la testa; io potrei scrivere la seconda ai miei, e i miei farebbero sì con la testa.

Hai spiegato oggi come è andata ieri con le notizie su Rossella Urru, con parole tue:

In uno scenario simile piattaforme come Facebook o Twitter, dove tutto è immediato, rischiano di trasformare subito in «fatti» quelle che sono solo labili informazioni da confermare. Il caso Urru ora diventa un’occasione per riflettere: la credibilità e la velocità spesso non vanno d’accordo e il vecchio metodo delle verifiche ha bisogno di pazienza. La realtà non viaggia necessariamente al ritmo di un «tweet» al secondo anche se non ci resta che sperare che l’entusiasmo sia stato solo prematuro.

Solo che la tua è una lettura ingannevole e filtrata da una diffusa attitudine a trovare alibi da parte di noi giornalisti quando sbagliamo, e le cose non sono andate così.
La notizia della liberazione di Rossella Urru non è arrivata a noi “da Twitter o da Facebook”, ma dal sito di Al Jazeera – la testata di informazione che tutti i media del mondo hanno celebrato nell’ultimo anno come luogo imprescindibile per avere notizie su quanto avviene in Africa e Medio Oriente – che ha ripreso dei giornali senegalesi e mauritani.

E prima che dilagasse, alle prime segnalazioni su Twitter, tutti i siti dei maggiori quotidiani italiani l’hanno messa come lancio sui loro siti. Lo so bene, perché al Post abbiamo immediatamente fatto un breve “post-it” che linkava al sito di Al Jazeera e diceva “Al Jazeera dice che” (nei primi minuti, vedi la URL, addirittura aggiungendo “potrebbe essere Rossella Urru”), ma poi abbiamo aspettato: e intanto il titolo sulla liberazione era sui siti dei quotidiani con grande spazio, e noi abbiamo dovuto restare indietro in attesa di maggior chiarezza. Ma poi ci torno, sul Post.

A quel punto la notizia su Twitter è sì dilagata, ma le fonti citate e linkate dai tweet erano soprattutto le testate italiane che le avevano dato grande spazio. E che sono state le più potenti messaggere e interpreti di quella notizia ancora tutta da verificare (il primo grande giornale a fare marcia indietro, a suo merito, è stato il Sole 24 Ore che ha cambiato il suo titolo in “Giallo sulla liberazione”).

La falsa notizia della liberazione di Rossella Urru agli italiani l’hanno data i giornalisti professionisti, i siti dei giornali e dei tg, non “Twitter”.

Più in generale, il fenomeno a cui assistiamo da tempo non è quindi quello che esponi tu, della presunta deriva precipitosa dell’informazione online. Ma è quello, assai più preoccupante, della deriva precipitosa presa dal giornalismo professionale e competente incapace di comprendere e governare l’informazione online. Su una cosa hai ragione: in rete circola di tutto e circola un’attitudine a dirle grosse, a non controllare, ad amplificare voci, a far girare notizie false. Perché la rete è come il mondo, come andiamo spiegando da tanto in molti.

Se domattina al bar io sentissi dire che Rossella Urru è stata liberata davvero, non tornerei a casa per farci un titolo sul Post. E se lo facessi e la notizia si rivelasse falsa, non  darei la colpa al bar né scriverei riflessioni su come le conversazioni al bar stanno mettendo a rischio l’informazione corretta. Perché il nostro ruolo e la nostra responsabilità e la nostra competenza servono esattamente a questo: a distinguere una notizia affidabile da una no. A controllare. Ad aspettare. A prenderci poi la responsabilità di quello che scriviamo.

Giovedì sera Servizio Pubblico ha mandato in onda un servizio sui momenti successivi alla caduta di Luca Abbà da un traliccio in Val di Susa. I suoi compagni, gli altri dimostranti, si disperavano, urlavano, arrabbiati, davanti alle telecamere, e dicevano “l’avete ucciso”. Dicevano “è morto!”. Se i giornalisti presenti avessero fatto in quel caso quel che fanno con le notizie che trovano in rete (dalla cose piccole come l’inventata chiesa molisana indemoniata della settimana scorsa, a quelle grandi, come la falsa foto di Osama bin Laden morto pubblicata da tutti quel giorno), avrebbero chiamato le redazioni e i loro giornali avrebbero titolato che Luca Abbà era morto. Salvo poi correggere e commentare che l’informazione dei passanti sta mettendo a rischio il giornalismo.

Non è la prima volta che notizie rilanciate e amplificate dai giornalisti professionisti e dai media tradizionali si rivelano false, e che questi ne danno la colpa alla rete: e non è la prima volta che  invece, a sapere com’è andata, la storia è un’altra e lo sbaglio è stato fatto da una professione che si sottrae – per competizione e ansia da prestazione – alla differenza tra essere giornalista e non esserlo, salvo protestare spesso perché quella differenza non viene riconosciuta.

Devo dire una cosa sul Post, a questo proposito, per ancora maggior chiarezza. Ieri, dopo il post-it, abbiamo aspettato e quando le agenzie italiane hanno parlato di una conferma della Questura di Oristano e quando ci sono stati nuovi dettagli sulla trattativa, ne abbiamo scritto. Con cautela, e riportando quello che si sapeva e quelle che erano le fonti. Ma abbiamo fatto uno sbaglio – l’ho fatto io, e il giornalista del Post che ne stava scrivendo era più cauto e mi ha poi convinto a correggere – titolando comunque: “Rossella Urru è stata liberata”. A suo merito dico anche che lui voleva allora mettere tra virgolette “è stata liberata”: ma io non amo chi usa le virgolette per dare notizie fragili e lavarsene le mani e gli ho scritto, su Skype:

le virgolette per prendere le distanze da una notizia in cui nn crediamo non le usiamo
o la diamo come la crediamo o non la diamo

Ma lui è stato bravo e ha insistito che qualcosa non tornava (Skype, 13,43: “cmq io ho ancora un po’ di dubbi su Urru, speriamo vengano dissipati subito”) e così abbiamo cambiato quel titolo sbagliato: sbagliato da me, per le ragioni di cui sopra e perché mi sono fidato di un grande media internazionale e di conferme diverse successive, malgrado la nostra proverbiale diffidenza. Che non abbiamo avuto abbastanza, perché non siamo stati abbastanza giornalisti.

Altro che Twitter e Facebook, caro Marco Bardazzi.

Aggiornamento: la gentile risposta di Marco Bardazzi, che spiega una cosa che ho equivocato del suo pensiero, ma per il resto mi pare lasci in piedi il mio ragionamento.

Secondo aggiornamento: scrive il direttore della Stampa, sul giornale di lunedì:

Il vero errore lo hanno fatto i giornalisti, che sono pagati per controllare la veridicità dei fatti e fare le verifiche incrociate e non per accodarsi agli entusiasmi. Se i professionisti appaiono certi, allora tutti gli altri hanno diritto di pensare che la notizia sia vera. Quando rivendichiamo l’importanza del giornalismo per avere un’informazione seria e affidabile, dobbiamo innanzitutto sentire la responsabilità che pesa sulle nostre spalle e ricordarci che la credibilità è il nostro unico, vero, patrimonio.

Vedi anche:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).