Sfiducia, falsità, diseguaglianze che hanno portato a Brexit

La mia sensazione prevalente è quella di tristezza. Ho passato più dieci anni a Londra, ci sono nati i miei figli che spero non mi rinfaccino mai il fatto che non gli ho fatto prendere il passaporto britannico, pensavo non gli servisse dato che avevano già quello italiano. Il pensiero va allo sconcerto dei miei amici britannici che sento sotto shock, e per i tantissimi come ero io, europei di Londra, che si sentiranno in una strana terra di mezzo. E mo’? «Uncharted territory» dice il mio amico con freddezza, davanti a un risultato molto emotivo, per il quale non era facile trovare una sola ragione concreta solida, nemmeno nascosta. Non c’è alcun gruppo sociale inglese che può pensare di guadagnarci, a parte i politici e i campaigners per il leave. Ma è una cosa particolare questa, ché di solito anche le campagne più ideologiche avevano dei sostegni economici chiari, magari minoritari, ma visibili.

E per prevenire (che già li sento) quelli che riferiranno questo voto alla disuguaglianza e al declino della classe media farei notare che i giovani britannici, che certamente sono il gruppo sociale che soffre più di tutti delle accresciute disuguaglianze economiche, hanno votato in massa per restare, mentre chi ha sofferto meno o niente, gli anziani, ha deciso di lasciare. Le disuguaglianze hanno portato benzina al senso di sfiducia di cui si è nutrita questa campagna? Sicuramente. È necessario bilanciare con più decisione la distribuzione del reddito nei nostri paesi? Sicuramente. Ma se fosse solo questa la chiave non avremmo Brexit, Trump, Le Pen, Podemos e Grillo, incoerenti e diversissimi tra loro. Avremmo un movimento egalitario e redistributivo, come a inizio ‘900 ci fu il socialismo.

Hanno ucciso Jo Cox, hanno ucciso una di noi. Un altro amico, che la conosceva bene «in una settimana ho perso un’amica e ho perso il mio paese». La distanza tra chi vive il tempo globale – non importa se per fare soldi in banca o per aiutare i rifugiati, come Cox – e chi è un ricettore passivo della globalizzazione, è troppo ampia. La disuguaglianza tra chi ha accesso a spazi di socialità, ai luoghi di condivisione – che spesso sono nel centro delle città – e chi invece ha solo internet per uscire dal proprio isolamento, è ancora più potente a nutrire distacco e sfiducia, e non dipende dal reddito. Sfiducia in tutto ciò che ha una parvenza di ufficiale, «la gente ne ha abbastanza degli esperti», ha affermato il ministro della Giustizia inglese, sostenitore di Brexit. Ma il contrario di esperti è inesperti, incompetenti, avventurieri.

Sul senso di sfiducia nel Regno Unito si è innestata una campagna sistematicamente basata non solo su propaganda, ma su falsità manifeste. Appena dopo la vittoria, Farage ha ammesso che la tesi per la quale ci saranno più soldi per la sanità inglese grazie a Brexit, uno dei temi fondamentali usati negli scorsi due mesi, era «un errore». E il voto per Brexit non è stato solo prevalente tra gli anziani, è stato prevalente tra le persone con istruzione più bassa, con una corrispondenza impressionante.

Il senso di sfiducia va certamente contrastato con politiche diverse, dedicate, specifiche. Politiche economiche, sociali, che aggrediscano diversi tipi di disuguaglianze. Cambiare l’Europa è un concetto da riempire di idee concrete, studiate bene sapete da chi: da esperti. Non solo gli eurobond, un sussidio europeo di disoccupazione, ma anche l’Erasmus per tutti i giovani, non solo una minoranza di quella minoranza che va all’università. L’Europa rimane la nostra casa comunque, anche dei britannici che vogliono rimanere fuori dalla porta, e ci sono tantissime cose che sapremo fare. Ma bisogna usare le parole, meglio di come è stato fatto finora. La divisione in gruppi e enclave è esacerbata dalla rete e dai meccanismi dei social. Un altro amico inglese «io non conosco nessuno che vota Brexit». Non è come la battuta sulla DC degli anni 70 che vinceva ma nessuno ammetteva di votarla: è così, comunichiamo in gruppi chiusi, ma non può funzionare un mondo che va avanti a camere stagne.

Infine, non può funzionare usare la democrazia, gli spazi pubblici, e il proprio ruolo, per metterlo a servizio solo e soltanto delle proprie piccole ambizioni e rancori personali. A me questo insegnarono da ragazzo, ed oggi si vede bene a cosa porta decidere di affiancarsi agli avventurieri. Che si va dove decidono loro, in un luogo dove i fatti non contano e dove qualsiasi fesseria ha diritto di tribuna. Le scelte delle persone non sono mai neutre, la democrazia è il nostro fine, trattarla come un mezzo la fa annichilire.

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_