La Biblioteca nazionale dell’inedito

Quando alla fine degli anni Ottanta venni assunto come redattore dalla casa editrice Feltrinelli, notai subito, dalla mia stanzetta affacciata su uno stretto corridoio, che ogni giovedì, subito dopo la pausa del pranzo, arrivava un’anziana donna che lo percorreva fino in fondo e si rinchiudeva nell’ultima stanza. La luce rimaneva accesa fino a tardi e, da sotto la porta, filtrava un fumo denso di sigarette. Accadde una volta che si affacciasse sulla soglia e, senza nemmeno salutare, mi porgesse una busta e chiedesse di consegnarla l’indomani al Direttore. Venni così a sapere che la misteriosa signora leggeva per la casa editrice i manoscritti che arrivavano per posta (una decina al giorno, inviati per “raccomandata con ricevuta di ritorno” sulla quale la centralinista stampigliava sadicamente: “i manoscritti non richiesti non verranno restituiti”). I variopinti pacchetti venivano poi accumulati proprio in quella stanza. Nella busta della signora c’era un foglio con i suoi giudizi, che il Direttore, Sandro D’Alessandro, scorse rapidamente e gettò via (erano tutti negativi). Chiesi quanti ne leggesse in un pomeriggio: “Anche trenta,” mi fu risposto, “e quelli inevasi se li porta a casa. È una professoressa di lettere in pensione”.

Roso dalla curiosità, qualche tempo dopo, presi coraggio, l’attesi al varco, mi presentai e le chiesi come facesse a smaltire, e condannare alla pattumiera, una quantità così rilevante di manoscritti. Sorrise con un’ espressione di accondisendente pazienza verso un novizio, mostrando una dentatura aguzza appannata di marrone per la nicotina, e mi spiegò: “Leggo le prime e ultime quindici righe. Poi, apro a caso e ne leggo altre quindici nelle pagine centrali. Nessun buon libro resiste a questa prova. Un bravo scrittore spara le sue migliori cartucce all’inizio e nella conclusione. E si dimostra tale se il lettore apre il testo per fare un carotaggio, come si fa in libreria quando si deve scegliere un libro del quale non si sa nulla. Se nei tre diversi punti il testo non è bello e ben scritto, allora non c’è storia che tenga e può essere tranquillamente gettato via”. Provai a obiettare che Guerra e pace non inizia proprio in modo brillante e chiaro a tutti (in francese!), e che se, aprendo a caso nelle pagine centrali, si incappa in una dettagliata descrizione di una battaglia… Mi fulminò con un’occhiataccia e se ne andò bofonchiando: “Qui non ne arrivano, di nuovi Tolstoj!”.

Confesso che in tanti anni di lavoro editoriale ho sempre avuto una certa difficoltà ad applicare il “metodo della professoressa” nella valutazione dei manoscritti (più che altro per un’insana bulimia di lettura verso tutto ciò che è scritto). Ma quando, per disperazione da sovraffollamento cartaceo o fretta, l’ho usato si è dimostrato infallibile (e da anni lo utilizzo anche, non fidandomi molto delle recensioni, per scegliere i libri da leggere).

Nel mondo, vengono prodotte ogni giorno una quantità enorme di cose sciatte, mal scritte e mal pensate, di scarsissimo interesse. E la gran parte di esse aspirano a esser pubblicate. In Italia, si stampano 55mila titoli all’anno: solo una piccolissima parte arriva nelle librerie e viene annunciata attraverso i media (e non potrebbe essere diversamente!).

Ora il Ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, a margine della premiazione del concorso di scrittura per le scuole Scriviamoci. Passami i tuoi pensieri e le tue emozioni in 30 righe (organizzato dal “Centro per il libro e la lettura”) ha dichiarato su twitter: “Faremo la Biblioteca Nazionale dell’Inedito. Un luogo dove raccogliere e conservare per sempre romanzi e racconti di italiani mai pubblicati”. L’idea ha suscitato, almeno in pubblico, moltissime critiche. Ma forse i moltissimi “autori mai pubblicati” se ne saranno rallegrati e staranno già riaprendo, speranzosi, cassetti e file. Credo di comprendere le buone intenzioni del Ministro, ma vorrei obiettargli che così la cultura si darà la zappa sui piedi e l’editoria sarà davvero condannata all’estinzione. Infatti la funzione della buona editoria è sempre stata quello di filtrare e selezionare il meglio. Seppur facendo spesso dei clamorosi errori di valutazione o sottostando, soprattutto negli ultimi anni, a logiche di mercato eccessivamente mortificanti per la qualità dei testi. Ma neppure il più risentito aspirante scrittore potrà negare che il sistema, nei secoli, anche prima dell’invenzione della stampa, ha funzionato.

Conservare, e rendere fruibili, tutti i volumi pubblicati è già un gravoso problema di spazi, personale, catalogazione. Le Biblioteche Nazionali Centrali di Firenze e Roma, per decreto regio, ricevono il deposito legale di tutto ciò che vien stampato in Italia e infatti, assieme alle altre sette Biblioteche Nazionali, stanno quasi collassando (se ancora funzionano è per l’eroico lavoro dei loro dipendenti). Se ciascuno potrà aspirare ad avere il suo testo nella “Biblioteca nazionale dell’inedito” (digitale o cartacea che sia) tutto il sistema bibliotecario italiano, che sconta una cronica carenza di fondi e spazi, sarà destinato a un rapido declino.

Il Ministro Franceschini avrà sicuramente avuto in mente la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale che ha sede a Pieve Santo Stefano, in Toscana. Fondato nel 1984 dal giornalista Saverio Tutino, questo archivio ha raccolto e catalogato più di 6.500 documenti biografici. Ma non sono che una piccolissima parte di tutti i diari e memorie prodotti in Italia! L’annuale Premio Pieve rappresenta infatti il traino per l’afflusso di documenti inediti che però vengono accolti e selezionati da un’apposita Commissione. Forse la “Biblioteca nazionale dell’Inedito” potrebbe essere aiutata da una Commissione apposita che seleziona il meglio. Ma le opere scelte, in base a criteri di qualità e interesse, perché allora non dovrebbero meritare di diventare “edite”?

C’è infine un altro aspetto che dovrebbe essere tenuto in maggiore considerazione quando si parla di libri pubblicati e inediti. Un libro edito non è mai soltanto il risultato del lavoro di scrittura dell’Autore. Prima che vengano stampati, i testi vengono infatti lavorati da editor, redattori, correttori (e, nel caso di libri stranieri, i traduttori che, in un certo senso, ricreano gli originali in una nuova lingua). Il risultato finale di un manoscritto non avrà mai la stessa forma di quando è stato consegnato alla casa editrice. Gli inediti, e purtroppo spesso anche i libri autopubblicati in rete, mancano di quella preziosa e profonda rifinitura che li rende, spesso, dei buoni prodotti.

Gli inediti sono quindi, al di là del giudizio sulla loro forma e contenuto, qualcosa di immaturo che renderebbe una Biblioteca, che li archiviasse indistintamente, di fatto inutilizzabile: un ammasso di cose anche brutte, acerbe e noiose. Non si sta infatti parlando di documenti che servono alla costruzione (o ricostruzione) della memoria, ma di opere di creatività senza forma che, per il fatto di essere conservate in uno scrigno dei libri, acquisterebbero una “dignità pubblica” impropria, mentre non hanno alcun valore se non, legittimamente e comprensibilmente, per chi le ha scritte e i suoi amici.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).