Anche un imbecille

Se avessi avuto l’età, e il diritto di voto, nel ’94 avrei votato per il “Polo della libertà”, la coalizione con cui Forza Italia e Lega Nord si presentavano agli elettori del Settentrione. L’avrei fatto per ragioni non diverse da quelli che motivarono molti entusiasti elettori di allora: il sollievo per la fine del politichese, incarnata sia da Berlusconi che da Bossi; l’esasperazione per la corruzione della prima Repubblica, conseguenza diretta della “partitocrazia”; la convinzione che un’Italia diversa e migliore presupponesse una de-politicizzazione della sua economia. L’insofferenza per un prelievo fiscale inusitatamente elevato.
Proprio per questo, trovo tremendamente triste la “proposta shock” di Berlusconi. Che ha presentato un ricco menù di suggestioni per riequilibrare il rapporto fra cittadino e Stato in Italia. Non tutte le cose che ha detto sono sbagliate. Al contrario, ha fatto un elenco piuttosto condivisibile delle peggiori piaghe del nostro Paese: l’inefficienza della macchina pubblica, gli sprechi, il finanziamento pubblico ai partiti da abolire per “recuperare il rapporto di fiducia” verso la politica, il “clima di intimidazione contro i contribuenti”, gli scandalosi ritardi nei pagamenti alle imprese fornitrici dello Stato.
Peccato che il peggioramento del rapporto contribuente/Stato (vedi alla voce Equitalia) sia in buona parte frutto di misure dei governi Berlusconi; peccato che non sono agli atti importanti tagli alla spesa pubblica dovuti a quegli stessi governi; peccato che nella legislatura 2001-2006 la delega fiscale, che avrebbe dovuto portarci ad avere tre sole aliquote dell’imposta sul reddito, fu lasciata ammuffire; peccato che non si abbia notizia di precedenti proposte del PDL per abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Per abolire il finanziamento pubblico ai partiti in Italia c’è stato un referendum, tradito naturalmente dai partiti stessi con la regia di Maurizio Balocchi, uomo forte della Lega, partito ora nuovamente alleato con Berlusconi.

Arriva, infine, la questione dell’IMU. Che, nella sua forma attuale, porta la firma di Mario Monti. Ma che servì al governo precedente per sostituire l’ICI, eliminata in ossequio alle promesse elettorali del 2008. Oggi Berlusconi torna sul tema, annuncia che abolirà l’IMU e addirittura che la restituirà in contanti agli italiani. Come si dice, promessa che vince non si cambia.

A parte il senso di deja-vù – questa sgradevole impressione che le campagne elettorali in Italia siano spettacoli di repertorio – la promessa di restituire i quattrini dell’IMU è rivelatrice.  Alcuni anni fa Giulio Tremonti ripeteva a disco rotto la necessità di spostare il prelievo “dalle persone alle cose”. Una tassa sugli immobili è più facilmente esigibile (le case non si spostano), è meno distorsiva (un immobile è un immobile è un immobile), avrebbe senso per finanziare gli enti locali.
In un quadro di finanza pubblica così drammatico, come quello in cui ci troviamo, e in un contesto di crisi così forte, è evidente che le prime tasse da tagliare sono quelle su lavoro e impresa (qui un’idea sul come fare): per cercare di ravvivare la crescita.
Ma parlare di ridurre la tassazione su lavoro e impresa ha poca presa sul grande pubblico, mentre una casa, in Italia, ce l’hanno in tanti, tantissimi, quasi tutti. In aritmetica elettorale, Berlusconi è imbattibile.

Chi l’avrebbe votato nel ’94 e in buona fede non può che cercare di riflettere e far riflettere su come Berlusconi nulla abbia fatto, in tutti questi anni, per dare all’Italia quel cambiamento di cultura politica che è la necessaria premessa per l’ormai dimenticata “rivoluzione liberale”. All’Italia manca, da sempre, un “senso del limite” dell’attività dello Stato. Di questo fatto, Berlusconi si è sempre avvantaggiato. Il sottinteso dei suoi proclami è che è giusto che l’attività dello Stato non conosca limiti chiari e ben definiti, che non ci sia un confine netto a separare politica ed economia. Questi fastidiosi argini all’attività dei decisori politici servono solo se i politici sono malvagi: non se sono “buoni”, come invece si dice lui. Forse anche per questo in Italia, piaccia o non piaccia, le privatizzazioni le ha fatte obtorto collo la sinistra, mentre il centrodestra ha riflettuto a lungo su come far sì che i prefetti potessero ordinare alle banche di dare credito alle imprese. La fatica immane che attende chi avrebbe votato Berlusconi nel ’94, e non poteva, sarà riscattare la parola “libertà” da chi ha fatto un uso spregiudicato di un lessico liberale, senza mai produrre risultati politici coerenti con le sue stesse parole.
Il rischio concreto, che s’intravede nelle affermazioni degli altri partecipanti a questa campagna elettorale, è che tutte le reali questioni su cui Berlusconi ha per anni moltiplicato le sue promesse (le tasse, la giustizia, la semplificazione) vengano derubricate a mera paccottiglia retorica.

Un’ultima considerazione. Nella sua conferenza stampa, il Cavaliere ha citato, non so quanto a ragion veduta, Maffeo Pantaleoni: «anche un imbecille è in grado di inventare nuove tasse, soltanto chi è intelligente sa ridurre le spese». Varrebbe la pena di ricordargli che dal 2000 al 2006 la spesa pubblica al netto degli interessi passivi è cresciuta in termini reali del 21,22%. Chissà chi era il signore, evidentemente incapace di ridurre le spese e quindi meritevole dell’appellativo sopra citato, che faceva il Presidente del Consiglio.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.