I bei tempi andati

Lui è vestito come se andasse a vedere una partita dei Mets. Lancia un’occhiata all’arco di Washington Square Park. I ricordi vanno alle tappe iconiche. Il primo incontro a Chicago, il secondo in aereo, le passeggiate d’autunno, il finto orgasmo, il bacio. Dietro di lui scorrono le mille luci di New York. È la notte di capodanno e la vita è altrove. Da qualche parte Frank Sinatra attacca “It Had to Be You”. Appare lei. Splendida e luminosa. Lo sguardo trasognato. Il corpo immerso in una folla anonima stipata nella Skylight Ballroom del Puck Building, al n.295 di Lafayette Street, in piena downtown. È la festa dei Taylor. Un palloncino la scuote per un istante dal suo torpore. Lo si capisce già: sono uno nei pensieri dell’altra. Ma sono distanti. Lui lo sa e inizia a correre. Lei invece inizia ad abbandonare la scena. Si avvicina a Bruno Kirby e Carrie Fisher, i comprimari più celebri che potessimo trovare (e che purtroppo abbiamo perso): “Me ne vado”. È quasi mezzanotte. I due tentano di fermare lei. Lui tenta di fermare due taxi. Nessuno riesce nell’intento. La crisi corre inesorabilmente verso il climax. “Resta”. “Devo andare”. Lui corre. I fiati si uniscono alla voce di Frank. Lui di fiato non ne ha più. Lei non vuole più sprecarlo. Lui gira l’angolo, entra nel Puck (ma l’esterno è l’Hotel Park Plaza di Los Angeles, al n. 607 South Park View Street) e sale le scale, lei rompe le righe. Lui entra nella sala, lei la sta lasciando. È di fronte a lui. Lo vede. Il suo cuore sussulta fino a smuoverle le spalle. Anche lui la vede. Va da lei e le apre il cuore. Lei si chiude, rientra in sé e abbandona la sala. È mezzanotte. Il mondo ferma l’attimo. Lui le ferma il polso e le regala la dichiarazione perfetta. Che si conclude con quella che sarà una delle frasi più riprese del pianeta (improvvisata): “Sono venuto qui stasera perché quando ti rendi conto che vuoi passare il resto della tua vita con una persona, vuoi che il resto della tua vita inizi il prima possibile”. Ed è qui che, finalmente, parte. “Should auld acquaintance be forgot, and never brought to mind? Should auld acquaintance be forgot, and auld lang syne?”.

Quella melodia un po’ struggente che sta sorreggendo la definitiva riappacificazione di Harry (lui) e Sally (lei) è opera di un italiano. Davide Riccio, natali nobili e torinesi fermati nel 1533 (suo padre era un maestro di musica appartenente ai conti Riccio di San Paolo e Solbrito), che fu musicista alla corte del Duca di Savoia e poi a Nizza. Non trovando grande accoglienza salpò per la Scozia con il conte Carlo Ubertino Solaro di Moretta (inviato come ambasciatore dal Duca Emanuele Filiberto di Savoia). Fu lì che, un giorno, incontrò alcuni colleghi e fu da loro che, come succede ancora oggi tra musicisti, gli arrivò la fatidica imbeccata: “Ci manca un basso”. Così si unì ai tre cantori per formare un quartetto. Non erano i Beatles, ma sfondarono ugualmente. Perché il loro pubblico sarebbe stata l’intera corte della regina di Scozia Maria Stuarda, a Edimburgo. Riccio era un uomo di brutto aspetto ma fornito di una voce capace di accecare gli occhi. Cadde nella sua rete persino la regina la quale, pur di averlo più vicino, nel 1564 lo nominò segretario personale per le sue relazioni con la Francia. Fu in questo periodo che, secondo alcune fonti, compose la melodia di “Auld Lang Syne”. La relazione attirò sospetti, invidie e ostilità. L’italiano possedeva troppi requisiti che disturbavano. Era straniero, era influente, era cattolico. Forse era una spia mandata in Scozia dal Papa, mentre, con ogni probabilità, era anche l’amante della regina.  Così, la sera 9 marzo del 1566, alcuni notabili protestanti, con l’assenso del re consorte Henry Stuart, penetrarono nel palazzo reale di Holyrood e giunsero nella sala da pranzo. Quando li vide la regina capì subito e tentò disperatamente di salvare la vita a Riccio. Ma ogni sforzo fu inutile e dovette assistere straziata alle cinquantasette pugnalate che posero fine ai trentatré anni di vita dello sventurato compositore. Le sue grida furono talmente disperate da attirare centinaia di popolani, i quali, armati di bastoni, si diressero al palazzo in suo soccorso. Minacciata dai congiurati la sovrana fu costretta ad affacciarsi alla finestra per tranquillizzare i suoi sudditi, mentre nello stesso momento, da un’altra finestra, il corpo di Riccio, dopo essere stato spogliato dei gioielli e delle vesti, veniva gettato di sotto. Il compositore fu sepolto velocemente nel cimitero di Holyrood, ma in seguito, per ordine della regina, il suo corpo venne traslato e tumulato nel sepolcro dei re di Scozia. L’inopportuna scelta pose un sigillo risolutivo sul dubbio della loro storia.

Oltre duecento anni dopo la sua melodia finì in bocca a un vecchio. Era stata masticata attraverso i decenni ma non era stata mai stampata né pubblicata e non si era quindi mai mossa da Edimburgo. Già veniva considerata “una canzone dei tempi antichi”. Un uomo ascoltò quella voce rauca e fu attraversato da un fremito. Così la trascrisse. Fu il primo al mondo che lo fece. Si chiamava Robert Burns e faceva il compositore. A parte questo non aveva nulla in comune con Riccio. Era uno scozzese nato e cresciuto in una famiglia contadina. A quindici anni già sputava sangue nei campi della sua fattoria e la poesia divenne per lui l’unica fuga possibile da un destino segnato. Gli accaddero molti eventi nefasti, morì il padre, si rifiutò di portare avanti la fattoria, ebbe un figlio illegittimo e stava per fuggire nelle Indie Occidentali. Lo salvò ancora una volta la poesia. La pubblicazione della sua raccolta “Poems – Chiefly in the Scottish Dialect” (1786) gli valse l’attenzione dei nobili della zona (tra i quali c’era anche la facoltosa Miss Dunlop, discendente di William Wallace). Il successo lo ancorò in Scozia. La sua fama crebbe rapidamente e quando il quotidiano “Edinburgh Magazine” gli dedicò un articolo, i suoi amici gli suggerirono di recarsi nella capitale per promuovere le sue opere. Fu così che nel 1787, a ventotto anni, il poeta visitò per la prima volta Edimburgo. Nella capitale entrò in contatto con i letterati dell’epoca (tra i quali Henry Mackenzie e Walter Scott). Nonostante ciò, la fama non si rivelò una soluzione alla fame. Aveva sposato la madre di suo figlio e sulle sue spalle gravava il peso dell’intera famiglia. Cominciò così ad esercitare la professione di esattore delle tasse, pur continuando a comporre poesie e canzoni tradizionali. Ne trascrisse oltre seicento. Tra queste inserì anche quella udita dal vecchio (che venne pubblicata all’interno della raccolta “Select Collection of Original Scottish Airs for The Voice”). Burns, però, non ne rivendicò mai la paternità. Anche lui seguì il destino triste di quell’italiano del quale, però, lui non aveva saputo mai nulla. Il cuore infatti gli fu fatale. Anche se non per faccende amorose. L’adolescenza passata sui campi aveva minato quel suo fragile muscolo che riuscì a battere solo fino ai trentasette anni di Burns (concedendogli la gioia di vedere, il giorno prima, la nascita del suo ultimo figlio). Diversamente da Riccio, la sua morte fu un evento e al suo funerale accorsero oltre diecimila persone da tutta la Scozia. Burns rimase per sempre il “Bardo Scozzese”, l’uomo che mise per iscritto l’identità di un popolo intero e la sua nazione ancora oggi si ricorda di lui ogni anno nell’anniversario della nascita (con le famose Burns suppers, accompagnate da canzoni e discorsi in suo onore).

Oltre un secolo dopo, l’uomo che contribuì a rendere “Auld Lang Syne” popolare anche oltreoceano fu il direttore d’orchestra canadese Gaetano Alberto “Guy” Lombardo (la cui musica veniva definita “la più dolce al di fuori del paradiso”). Già agli inizi del Novecento cantarla era ormai una tradizione. Il Washington Post del 2 gennaio 1910 ci informa che “L’addio al vecchio anno è stato celebrato a Londra per lo più nel solito modo. I residenti scozzesi si sono riuniti fuori della St. Paul’s Church e hanno intonato Auld Lang Syne non appena è risuonato l’ultimo dei 12 colpi del campanile”. Ma, a partire dal 1929 (un anno terribile), fu Lombardo che, suonandola per quasi mezzo secolo nel concerto di fine anno del Roosevelt Hotel di New York (che veniva trasmesso radiofonicamente in tutto il Paese raggiungendo così il cuore di ogni americano), contribuì non solo alla sua diffusione ma a consolidare quel legame indissolubile con i festeggiamenti del capodanno. Il testo della canzone, d’altronde, scritto in antico dialetto scozzese, racconta la storia di un’amicizia, di un brindisi fraterno, di giorni trascorsi insieme e di inviti a ricordare i vecchi amici:“Faremo un brindisi pieno d’affetto insieme, in ricordo di quei bei giorni andati”. In qualche modo quella melodia può essere presa come un promemoria per l’anno che verrà.

La canzone dalla radio è passata poi al cinema e, come nel gioco dell’anello, di film in film, di generazione in generazione, ci è stata consegnata dopo un lungo viaggio. Iniziato con La febbre dell’oro (1925), proseguito con lo splendido finale de La vita è meravigliosa (1946), entrato nella modernità con L’appartamento (1960) e Ocean Eleven (1960), consolidato negli anni della crisi con L’avventura del Poseidon (1972) per giungere così a noi (anche) tramite Harry ti presento Sally, il film del 1989 di Rob Reiner, scritto da Nora Ephron, con Billy Crystal e Meg Ryan (il viaggio sarebbe poi proseguito).

“Auld Lang Syne” è ormai una melodia universale, una delle canzoni più celebri di tutti i tempi, come “O sole mio”, “Jingle Bells” o “Happy Birthday”. È stata interpretata da migliaia di artisti, da Elvis Presley a Susan Boyle, passando per Louis Armstrong, Frank Sinatra, Aretha Franklin, Jimi Hendrix, Billy Joel e Mariah Carey. È diffusa in tutto il mondo con titoli e traduzioni differenti (negli Stati Uniti è “The New Year’s Eve Song”, in Italia “Valzer delle candele”, in Francia “Ce n’est qu’un au revoir”, in Danimarca “Skuld gammel venskab rejn forgo”, in Olanda “Wij houden van Oranje”, in India “Purano shei diner kotha”). Anche il titolo viene tradotto con accezioni diverse: la versione più comune è “Old Long Since” (Tanto tempo da quando”), una sorta di richiamo ai “bei tempi andati”. In Scozia la canzone, che era stata proposta come inno nazionale, viene tradizionalmente cantata durante Hogmanay, il capodanno locale. In Corea del Sud, invece, è stata veramente l’inno nazionale fino al 1948. Oggi questa melodia che odora inevitabilmente di vischio, pudding e sherry in quasi tutto il mondo rappresenta l’inno ufficiale del Capodanno: viene intonata allo scoccare della mezzanotte in televisione, alla radio, nella sale da ballo, nei pub e nelle case (ed è possibile che prima o poi diventi anche una nostra tradizione, come accaduto con Halloween o il Black Friday).

Nonostante il successo, oggi però sono in pochi a ricordarsi le parole della canzone (tra l’altro la versione originale scozzese differisce leggermente da quella inglese). Una ricerca della catena inglese Sainsbury’s ha evidenziato come il 97% non riesca a rammentare il testo. Oltre la metà delle persone interrogate non sapeva che il bardo Robert Burns avesse scritto le parole della canzone. Altri rimandavano la paternità dei testi ai Beatles (40%), agli ABBA (60%), a Taylor Swift (34%) e persino Snoop Dogg (45%). Il 3% riteneva addirittura che l’autrice fosse Mariah Carey. La maggioranza degli abitanti del Regno Unito è capace di cantare appena il ritornello o al massimo i primi versi e il 42% dei millennial non conosce una sola parola. “Vogliamo che tutti abbiano un fantastico capodanno – ha dichiarato un portavoce dei magazzini inglesi – e cantare Auld Lang Syne fa parte delle nostre celebrazioni come bere un bicchiere di champagne a mezzanotte”. E dal momento che molti, secondo l’indagine, stanno abbandonando questa tradizione perché non sono sicuri di ricordare la canzone, Sainsbury’s ha messo online un pdf con il testo integrale sperando così di farla rivivere.

“Mi dici cosa significa? – chiede Harry a Sally dopo il bacio – È una vita che mi arrovello su questa canzone. Cioè il ritornello significa che dobbiamo dimenticare i vecchi amici o che se li abbiamo dimenticati li dovremmo ricordare?! Il che è impossibile se li abbiamo già dimenticati!”. “Beh – risponde Sally – forse significa che dovremmo ricordare che li abbiamo dimenticati! Comunque parla di vecchi amici”.

Era la sequenza perfetta di un film perfetto. E in quella storia di amici che si perdono e si ritrovano nella notte di capodanno “Auld Lang Syne” era la canzone perfetta. Quell’insieme di combinazioni felici ha reso iconica una certa idea di capodanno, ma se questo è potuto accadere anche noi non dobbiamo scordarci dei bei tempi andati.

Senza Riccio, infatti, senza gli amici che cercavano un basso, senza Burns, senza quella sua tenacia che lo portò lontano da casa, senza quel vecchio che, cantando, gli squarciò l’anima, senza Edimburgo che aveva dato asilo ai due compositori conservando l’impronta poetica che vi avevano lasciato, senza “Guy” Lombardo che come Darwin riuscì a legare due continenti, senza l’incredibile staffetta che hanno corso Elvis, Chaplin, Shirley Temple insieme a tutti quei film che si sono passati il suo testimone, ecco, senza tutto questo non avremmo avuto la nostra “Auld Lang Syne”.

Se allo scoccare della mezzanotte proviamo un briciolo di struggente malinconia lo dobbiamo anche a loro. Buon anno!

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
Puoi scrivergli qui.