“Aspetto e domando”

Sono rimasti sull’home page del sito di Repubblica solo alcune ore martedì 20 luglio. Ieri nemmeno un cenno sul quotidiano in cartaceo. Ma i risultati della ricerca realizzata dal dipartimento di scienze relazionali dell’università di Napoli “Federico II” su quella che è stata chiamata “generazione perduta”, ossia i giovani dall’età indefinita, meriterebbero ben più spazio per approfondimenti, riflessioni, pensieri.

Basta scorrere le storie dei partecipanti all’indagine per rendersi conto, ancora una volta di più, di quanto questo Paese sia smarrito, di quanto lo siano i giovani. Ossia i “veri” costruttori di futuro, con buona pace della gerontocrazia al potere che si illude di non dover mai cedere il passo. Una mera illusione, appunto, peraltro malcelata.

Invece ogni volta che si parla di giovani, si sa, è molto più comodo ricorrere a formule logore come quella infelice dei “bamboccioni” coniata qualche anno fa dall’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa e reiterata fino allo sfinimento dai media. Oppure lasciar spazio alla retorica del merito e del talento, non di rado intonata da chi appena ne vede uno in giro se ne allontana a gambe levate, oppure lo scredita o, di più, lo combatte senza riserve perché teme lo possa mettere in ombra.

Pierluigi Celli, direttore generale dell’università Luiss, lunedì su Affari&Finanza opportunamente metteva in guardia dalla mistica del merito, perché si corre il rischio, affermava, «di non risolvere il problema ma di attribuire un peso ingiustificato ai suoi profeti». Sempre lunedì, sempre Pier Luigi Celli, sempre opportunamente, in un’intervista rilasciata alla rivista Mit24 allegata al Sole 24 Ore affermava, tra le altre cose, che «il vero innovatore mette in discussione regole e processi seguiti fino a quel momento. L’innovazione è per sua natura eversiva e bisogna avere quindi il coraggio di accettare la sfida e rischiare».

Peccato che, a proposito di coraggio, lo stesso Celli poco meno di otto mesi fa invitasse pubblicamente il figlio a lasciare l’Italia perché «è un Paese che non ti merita», riconoscendogli il diritto di «vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente e trovarti emarginato senza capire perché».

Arrivarono tanti commenti e lettere a quell’”invito”.

La replica che trovai più bella e condivisibile fu quella di Benedetta Tobagi, che bollò come triste il fatto che «per denunciare una situazione di grave disagio e degrado della vita civile, il direttore generale della Luiss scelga l’espediente retorico della “lettera al figlio” e si lanci in doglianze dure, ma generiche, sui mali italiani e sull’assenza di un futuro possibile per i giovani che restano a vivere in Italia».

Ancora Benedetta Tobagi, nel suo bellissimo libro “Come mi batte forte il tuo cuore” dedicato al padre, il giornalista Walter ucciso il 28 maggio 1980 da una formazione terroristica, scrive a un certo punto: «Aspetto e domando con insistenza che si aprano nuove porte, nuovi archivi, tanti occhi e pensieri, per disperdere l’aria stagnante di un paese che puzza di chiuso».

Verosimilmente per altre ragioni, ma per la medesima voglia di cambiamento, credo lo aspettino e domandino tra i tanti, anche molti “giovani dall’età indefinita”.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com