L’appello anti-cambiamento

I loro toni e i loro argomenti sono irritanti fino alla provocazione, ma in realtà dovremmo ringraziare i professori Rodotà e Zagrebelsky, e tutti i professionisti dell’eterno appello antiautoritario, ora indirizzato a bloccare i progetti di riforma costituzionale di Renzi. Grazie a loro, un equivoco di anni si sta finalmente sciogliendo e una sana divaricazione si apre tra il popolo del Pd e una sinistra intellettuale e politica ormai portatrice non tanto di spirito critico bensì di intolleranza, alterigia e presunzione.
C’è stato un periodo, lungo, durante il quale il ricatto morale esercitato da questo establishment accademico, giornalistico e culturale ha paralizzato le leadership riformiste, bloccandole sulla soglia di qualsiasi innovazione di sistema si trattasse di istituzioni o di giustizia per non dire della carta costituzionale. Chiaro: dall’altra parte giocavano perversamente i trucchi, le giravolte e gli interessi privatissimi di Berlusconi. Il risultato era una tenaglia stretta a soffocare qualsiasi cambiamento, puntualmente denunciato come cedimento, tradimento, complicità con un nemico che di qualsiasi riforma istituzionale avrebbe fatto strumento di rafforzamento del proprio regime.

Non solo la sinistra, ma l’intero paese ha pagato a carissimo prezzo questo pesante impedimento. Nel frattempo, si impoveriva e si semplificava una cultura politica progressista che in precedenza era stata invece capace di pensare anche evoluzioni ardite e complesse dello Stato (come dimostra tra l’altro l’opportuna riesumazione, a opera del Foglio, di una proposta di fine del bicameralismo avanzata nel 1985 dall’allora Sinistra indipendente, primo firmatario il presidente di quel gruppo Stefano Rodotà).
Svanito il fantasma del regime berlusconiano, divenuta di moda l’allergia verso Matteo Renzi, l’argomento della forzatura autoritaria viene ora rivolto contro di lui, contro il Pd e contro un progetto che in realtà fa solo rivivere idee che, senza esito, corrono nel dibattito pubblico da almeno trent’anni.
Ma l’anatema che veniva facile contro il piduista Cavaliere nero non è altrettanto efficace contro il giovane premier e segretario del Pd, di modi forse bruschi ma di intenti dichiarati, e poco probabile nei panni di duce del Terzo millennio.

Soprattutto, l’incapacità della politica di autoriformarsi è diventata insopportabile per i cittadini tutti, a cominciare dal corpo militante del Pd. E questo, si badi bene, anche grazie all’incessante opera di denuncia che dell’immoralità della “vecchia” politica facevano gli stessi che oggi, travolti dal proprio stesso impeto, si arroccano nella difesa e nella conservazione dell’esistente.
Il sostegno editoriale del giornale-partito Fatto e l’alleanza sostanziale con Beppe Grillo non sono estemporanei, bensì logici (come dimostrano le avances in chiave europea dela Lista Tsipras verso il M5S): in un sistema politico alleggerito, rinnovato e tornato credibile, i vari angeli dell’apocalisse italiana non saprebbero dove collocarsi per tuonare.

In fondo, Renzi potrà forse riuscire dove altri prima di lui hanno fallito, cioè nel ristabilire un primato della politica che spezzi l’incantesimo esercitato sulla sinistra e sul paese da minoranze che, molto oltre il sacrosanto diritto di critica, si sono auto-imposte come custodi della legalità e delle regole.
Così appare finalmente chiaro, anche all’opinione pubblica democratica che s’è fatta comprensibilmente influenzare negli anni bui del conflitto tra berlusconismo e antiberlusconismo: a molti di coloro che in questi anni infelici sono saliti sulla cattedra della morale, alla fine interessa più rimanere sulla cattedra, che valutare quale sia la giusta morale per l’Italia.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.