Andare via da Twitter

Ho molto amato Twitter. Negli ultimi quindici anni è stato il luogo di rete nel quale ho passato più tempo. Ora vorrei andarmene, ma non è facile come sembra.

Fin da quando ho iniziato a navigare in rete sono stato su internet prevalentemente un amatore. Ho scritto e letto, discusso e litigato su argomenti che mi interessavano. Ho cominciato a scrivere di cultura digitale perché mi interessava, ho aperto un blog, quando nacquero i blog, per scriverci i miei appunti personali e discuterli con altri, ho iniziato ad utilizzare i social network (per la verità praticamente solo Twitter) per le medesime ragioni. Mi interessavano le informazioni e le persone, non tutte le informazioni e nemmeno tutte le persone: dove le trovavo lì mi fermavo.

Non volevo diventare ricco, né famoso, non volevo diventare un giornalista, oggi – se non facesse ridere – si direbbe che non aspiro a diventare un influencer. Mi interessavano certe informazioni e certe persone. E in tutti questi anni le ho trovate, e mi hanno arricchito, e hanno fatto di me una persona un po’ meno stupida di quanto non fossi prima.

Qualche giorno fa un biologo molecolare italiano che lavora all’Università di Filadelfia ha pubblicato su Facebook un post nel quale condivideva i dati scientifici sulle cosiddette “cure alternative” per il Covid. La piattaforma, per qualche sua misteriosa ragione, la più probabile delle quali è un flusso di segnalazioni del post da parte di utenti no-vax, ha censurato il messaggio dello scienziato definendolo come “disinformazione che può provocare danni fisici”. Facebook come si sa non è perfetto, Twitter nemmeno. Incidenti del genere accadono tutti i giorni e soprattutto di questi tempi sono un problema. Twitter può provocare danni fisici? Penso di sì, in molte differenti maniere.

Resta il fatto che detesto i cambiamenti e mi piacerebbe continuare a scrivere su Twitter con il mio solito tono di voce, che è assertivo e catacombale e certo potrà non piacere a tutti, con il mio disinteresse per il contesto (chi ha capito l’allusione bene e chi non l’ha capita pazienza) con, insomma, il mio solito approccio da amatore che legge le cose di molti, perché la piattaforma meravigliosamente gliele offre, e commenta a beneficio delle persone che lo conoscono. Questo oggi è diventato impossibile.

Ogni post su Twitter meno che neutro è sottoposto all’immediata reazione di una folla di sconosciuti, talvolta organizzati, molto più spesso casualmente approdati da quelle parti. Non vale solo per tipi particolarmente incauti come me, vale anche per chiunque altro abbia radunato negli anni una piccola platea di follower; vale in special modo per i politici e per i personaggi pubblici, vale soprattutto per le donne. Inoltre pressoché chiunque oggi – anche una casalinga marchigiana con 20 follower – potrà potenzialmente ottenere i propri quindici minuti di notorietà scrivendo due righe su Twitter che sappiano scatenare l’attenzione di una delle molte bestie in circolazione da quelle parti.

Una quota minima di un simile rumore di fondo è fisiologica ed esiste da sempre: per attenuarla la macchina ha immaginato meccanismi come la possibilità di silenziare o bloccare un profilo (più alcuni altri che sono stati aggiunti in seguito). Nonostante questo su Twitter, da tempo, il rumore di fondo ha smesso la sua caratteristica incidentale per diventare regola e se esistesse una legge di Murphy al riguardo forse sarebbe:

Se qualcosa può essere contestato lo sarà.

A differenza di quanto si legge spesso in giro, nemmeno le piattaforme social pensano che il rumore sia un valore monetizzabile, vorrebbero ridurlo ma non sanno come.

Twittando spesso di digitale, politica e informazione ho smesso di contare le volte in cui sono stato apostrofato da commenti del tipo: “ecco il solito pennivendolo”, oppure: “voi giornalisti siete la feccia”. Le prime volte, ingenuamente, provavo a far notare al mio sconosciuto interlocutore che non sono un giornalista ma un semplice cittadino con un suo discutibile punto di vista, poi ho realizzato che era tempo perso e ho smesso. Ho collezionato negli anni commenti di gente che, in tempi differenti, quasi sempre con toni parecchio accesi, mi definiva: grillino, leghista, comunista, democristiano, fascista. Circa un anno fa, disinteressandosi intenzionalmente del contesto delle cose da me scritte, alcuni giornali di centro destra, istigati da un post di Salvini che mi indicava come bersaglio, hanno analizzato il mio profilo Twitter deducendone che ero certamente un razzista ma che odiavo anche gli inglesi e perfino il numeroso popolo cinese. Come è noto alcuni vizi di Twitter tendono poi a spargersi tutto intorno oppure, come dice il poeta, fanno dei giri immensi, per esempio nelle redazioni dei giornali, e poi ritornano.

Essere additato dalla macchina del fango leghista è un’esperienza che per fortuna non capita a molte persone ma che personalmente non consiglierei a nessuno. Centinaia di anonimi codardi (come recitava il famoso nick inventato da Slashdot nei suoi forum della internet dei primordi) che ti minacciano di morte e che invadono ogni tuo spazio di rete per dimostrarti il loro odio, non lasciano indifferente; eppure anche in questo utilizzo estremo degli spazi sociali l’accelerazione in corso è del tutto evidente. Prima il bersaglio era l’avversario politico ora potrà essere chiunque.

Tuttavia nella mia progressiva disaffezione verso Twitter l’odio in rete c’entra molto poco. È assai più importante la sensazione di comunità che si infrange, il sentimento di chi ha utilizzato una piattaforma per costruire una rete utile (per sé e per gli altri) e sentimentale (per sé, e lui spera anche per altri) e che vede questo tentativo affondare. Abbiamo ingenuamente pensato che simili comunità di rete potessero auto-generarsi e mantenersi, che le persone affini (in senso lato, non necessariamente per idee e punti di vista) si sarebbero collegate fra loro spontaneamente, trovando la maniera di hackerare le rigidità e gli interessi delle piattaforme. Così evidentemente non è stato.

Osservando le mie colpe, che pure esistono, cosa avrei potuto fare per ridurre gli attriti e twittare in santa pace e scambiare opinioni con altri sugli argomenti che mi interessano? Avrei dovuto pesare ogni volta le parole in un luogo di rete nato perché le parole volino leggere e immediate? Avrei dovuto twittare senza farlo, utilizzare da quelle parti la pacatezza e il controllo che metto in un testo come questo che state leggendo? Aveva senso? Ne valeva la pena? Probabilmente no. Inoltre, se anche così avessi fatto ed ora non mi sentissi in colpa per i toni e l’immediatezza utilizzati nei miei tweet degli ultimi quindici anni, sarebbe cambiato qualcosa?

Se il potenziale informativo di Twitter, cioè la possibilità che la piattaforma mi offre di assortire in un unico flusso contenuti eterogenei che ritengo interessanti (informativi, di opinione, sociali, politici, amicali ecc.) rimane per me intatto, la quota sociale e di condivisione di simili contenuti collassa ogni giorno di più sotto il peso di una sintassi ormai obbligatoria che prevede, da un lato la massima cautela possibile e dall’altro l’acre odore della battaglia. Per chi non ambisce né all’una né all’altra ma vorrebbe semplicemente commentare le cose del mondo in assoluta libertà, Twitter è ormai diventato un luogo inabitabile.

Alternative social adatte a me al momento non mi pare ne esistano. Certo esiste Instagram, dove i conflitti sono potentemente silenziati dall’architettura della piattaforma e anestetizzati da quintali di pubblicità (in ogni caso non potrei mai utilizzare seriamente un luogo di rete che non prevede la possibilità di mettere un link, detesto profondamente chi abbia anche solo immaginato una limitazione del genere); esiste ancora Facebook che è ormai una residenza per anziani con regole di moderazione spesso imperscrutabili; ed esistono tutta una sequenza di strumenti digitali, oggi di gran moda, che vanno dai podcast alle newsletter nei quali domina, fin dall’inizio, l’ego dell’emettitore. Ego di cui io non dispongo, almeno nelle dosi necessarie. Mi incuriosiscono da sempre le comunità di persone, molto meno le singole voci diffuse da un altoparlante.

Così continuerò ad utilizzare Twitter leggendo come prima e cercando di twittare sempre meno e mi dispiacerò delle molte relazioni con persone interessanti di cui godevo e che sono andate perdute in questi anni semplicemente perché loro, i miei amici, più pratici e meno sentimentali di me, hanno saputo andarsene per tempo.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020