Abbiamo un solo problema

Il trentacinquesimo anniversario della nascita della globalizzazione dell’economia non poteva cadere in un frangente peggiore. Ossia, la conclusione del G20 a Seul che ha certificato la conclamata impotenza dei Paesi economicamente più forti a saper far fronte comune nella soluzione di grandi questioni come la guerra delle valute, gli squilibri commerciali, le derive protezionistiche, la riforma delle regole della finanza.

Ha scritto Federico Rampini sabato su Repubblica: «Mai documento di un vertice sarà stato meno credibile, meno rilevante di quello sottoscritto oggi. I potenti della terra, e i loro gregari che appartengono a questa o quella sfera d’influenza (americana, cinese, tedesca), sono in disaccordo su tutto: sulle cause del grande disordine attuale, quindi sui rimedi».
Eppure con tutt’altro spirito, il 15 novembre del 1975, si riunirono nel castello di Rambouillet, alle porte di Parigi, i capi di Governo degli allora sei Paesi più industrializzati del mondo (Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia, Giappone, Italia) dando inizio, appunto, alla globalizzazione dell’economia di cui ben racconterà lo storico Harold James in un avvincente libro.

L’incontro tra Gerald Ford, Helmut Schmidt, Harold Wilson, Valéry Giscard d’Estaing, Takeo Miki e Aldo Moro, doveva servire a sviluppare opinioni e prendere decisioni che non fossero condizionate dalle rispettive politiche nazionali e vincolate agli apparati burocratici. Per questo furono espressamente “tenuti fuori” i ministri delle Finanze e degli Esteri, proprio per non turbare quel clima di intimità che avrebbe dovuto aiutare ad affrontare i temi in agenda con una certa lungimiranza, senza rimanere imbrigliati nei tecnicismi del caso. «Persino il ministro degli esteri statunitense, il Segretario di Stato Henry Kissinger» ricorderà James, «il solo a cui fu messa a disposizione una camera da letto nel castello, decise, dopo aver scoperto che quest’ultima non aveva un bagno proprio, di alloggiare in un hotel di Parigi come gli altri ministri».
Il vertice, antesignano dei vari G7, G8 e G20, sancirà l’interdipendenza dei sistemi economici dei diversi Paesi, la necessità di un loro coordinamento internazionale e si concluderà con un comunicato ufficiale finale in cui si legge che sarebbero stati promessi «sforzi in vista del ripristino di una maggiore stabilità nelle condizioni economiche e finanziarie fondamentali dell’economia mondiale, nonché misure atte a contrastare turbative alle condizioni di mercato o fluttuazioni imprevedibili dei cambi».

Da allora si sono succeduti, a partire dal 1976, i vertici del G7 (con l’aggiunta del Canada), dal 1998 del G8 (con l’aggiunta della Russia) e, dal 2008, del G20, nato nel 1999 come forum di “tecnici” ma esteso, dopo l’ultima grande crisi della finanza mondiale, anche ai capi di Stato e di Governo di 19 Paesi e all’Unione europea.
Quasi sempre, però, i risultati si sono rivelati inconcludenti come quelli di Seul. Perché?
La risposta, anzi le risposte, ovviamente sono complesse e, naturalmente, non univoche. Su un fatto, tuttavia, proprio per stare al “compleanno” odierno, credo si possa convenire: ogni incontro si risolve alla fine sempre in defatiganti negoziazioni che svelano solo lo stato dell’arte dei rapporti di forza tra i leader. Raramente si affrontano davvero i problemi in quello spirito originario di consapevolezza di un comune destino che, come abbiamo visto, diede vita a questi summit.
Affermava Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Europa, che «c’è una differenza abissale tra negoziare e affrontare un problema comune. Nel primo caso ognuno porta al tavolo il suo problema. Nel secondo, sul tavolo, c’è “un solo problema”, che è lo stesso di tutti, e ognuno porta all’incontro non il suo problema, ma la sua saggezza per trovare una soluzione al problema comune».

In molti abbiamo letto come al termine del vertice di Seul Berlusconi abbia deciso di non partecipare alla consueta conferenza stampa finale e di ripartire subito per l’Italia dove lo attendeva la poltrona di premier sempre più traballante. Un classico caso (l’ennesimo) in cui un “suo” problema è prevalso su una circostanza di interesse comune . Ecco allora che, almeno in Italia, sarebbe auspicabile far tesoro di quanto sosteneva Jean Monnet. Noi oggi abbiamo, a mio avviso, “un solo problema”: che Berlusconi lasci la guida del Governo. Mi auguro, quindi, che tutti i leader politici che sono impegnati allo scopo e che si rincorrono in queste ore in frenetiche riunioni, portino ai loro incontri non i loro problemi, bensì la loro saggezza «per trovare una soluzione al problema comune».

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com