A me piacerebbe?

Su Twitter gira un video di qualche secondo in cui un ragazzo con una maglietta blu spacca il naso con un pugno a un ragazzo con la maglietta blu. Dopo l’assalto il ragazzo aggredito si alza e si allontana sorpreso e sconvolto. Il video è stato postato da molte persone per esecrare la violenza del gesto e dei tempi.

Dalla dinamica – elementare e per questo inappellabile – i commentatori desumono che potrebbe trattarsi di un’aggressione omofoba (e infatti non lo è). Di certo è un episodio orrendo, anche se minimo. Oltre ad aggredito e aggressore, ci sono altre persone – ragazze – che assistono senza intervenire.  I commenti sono concordi nella condanna: la violenza dell’attacco, l’umiliazione dell’aggredito e la mancata reazione degli altri sono lampanti. È una scena disturbante che non si può che condannare.

Da bambino, a 11 anni, sono stato preso a pugni da un altro ragazzo per non avergli ceduto il posto alla fontanella. Era spalleggiato da amici più grandi, ma molto probabilmente mi avrebbe picchiato anche da solo. È stata una scena umiliante e mi vergogno ancora a pensarci. Il ragazzo si chiamava Andrea Testa – se esisti ancora, non ti ho dimenticato. Era luglio. Ero arrivato alla fontana in bici, sudato e assetato dopo una partita di pallone ai giardinetti. Stavo per bere quando Testa è spuntato da dietro una siepe e mi ha detto:

– C’ero prima io, spostati.

Sapevo che era uno violento, lo conoscevo di vista, ma mi sono fatto coraggio e ho risposto che non era vero che c’era lui e che prima finivo di bere io. Testa mi ha detto: – Ti ho detto di spostarti.

Gli ho detto: – E se no, cosa fai?

– Ti tiro un cartone.

– Davvero?, ho risposto credendo che fosse una frase da cartone animato.

– Davvero, ha detto lui, tirandomi un pugno pieno sul naso. Non avevo mai provato la sensazione di una mano chiusa diretta, che in un decimo di secondo ti si abbatte in faccia, e per fortuna non l’avrei provata mai più. Almeno finora. Ricordo  perfettamente lo stupore, più che il dolore, e l’ho riconosciuto nell’espressione del ragazzo picchiato nel video. Stavo valutando come reagire, interdetto come uno non abituato alle botte, quando è arrivata altra gente, amici di Testa, più grandi, minacciosi, per circondarmi ridendo.

– Ne vuoi un altro?, mi ha detto Testa, mentre gli altri mi si facevano intorno. Sono saltato sulla bici, anche perché avevo paura che me la rubassero, e ho cominciato a pedalare più forte che potevo, inseguito da Testa e dai suoi che mi tempestavano di pugni la nuca e la schiena, finché hanno potuto. Ancora adesso, a ripensarci, mi sento umiliato.

Se racconto questo episodio non è per paragonare il mio piccolo trauma all’aggressione subita dal ragazzo del video. È per dire che se a 11 anni quel fatto fosse diventato virale e se fosse stato commentato da migliaia di persone sconosciute, mi sarei sentito più solo e, molto probabilmente, disperato. È per dire che chiunque posti, riposti o commenti un video di quel genere – anche con le migliori intenzioni e per esprimere il proprio sdegno e la propria solidarietà alla vittima – non fa che moltiplicare la violenza che quella vittima ha subito e la potenza di chi l’ha attuata. (Infatti fuori dall’inquadratura qualcuno ha ripreso la scena sapendo che sarebbe accaduta). La condivisione di massa non fa che trasformare un trauma odioso, ma privato, in una gogna pubblica invalicabile. Non fa che trasformare un atto di minima, vigliacca, sopraffazione in un gesto degno di nota.

Non è la violenza di un’immagine, per quanto potente e intollerabile, a stabilire la gravità di un fatto. Altrimenti saremmo costretti – e infatti siamo costretti – a misurare la moralità di un atto in base all’emozione che provoca, non alle sue intenzioni e ai suoi effetti. Finiremmo, cioè, per pensare all’etica – cioè al senso della nostra vita  – come a una somma di reazioni emotive istantanee, non come al progetto di un’esistenza giusta, a una scelta da inseguire o rifiutare.

Ogni racconto morale nasce da una storia esemplare. Il problema è che le storie esemplari dividono il mondo in buoni e cattivi e non ammettono sfumature. La facilità e la potenza dei social nel creare parabole digitali istantanee ha l’unico effetto di assolvere gli indignati, condannare all’infamia gli aggressori e consegnare alla vergogna gli aggrediti per sempre e senza appello. Per resistere – ed evitare di mettere like, faccine che piangono o commenti che saranno dolorosi soprattutto per chi è stato attaccato – credo che ci sia un’unica strada: chiedersi ogni volta, con fatica, se nelle stesse circostanze dei picchiati, violentati o uccisi, a noi piacerebbe essere esposti.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.