La condanna a morte di Sheikh Hasina non cambia le cose in Bangladesh
Il paese discute ancora di come attuare le riforme al centro delle proteste del 2024, che l'ex prima ministra represse con violenza

Lunedì un tribunale speciale in Bangladesh ha condannato a morte l’ex prima ministra Sheikh Hasina per crimini contro l’umanità. Hasina è accusata di aver ordinato la repressione violenta delle proteste che nell’estate del 2024 portarono alla sua destituzione, dopo 15 anni ininterrotti di governo e una carriera politica ancora più longeva. Secondo le Nazioni Unite, tra il 15 luglio e il 5 agosto 2024 vennero uccise 1.400 persone, su ordine del governo. Gli audio di alcune telefonate tra Hasina e altri funzionari delle istituzioni bengalesi hanno dimostrato il suo coinvolgimento diretto.
Hasina si trova in India e la sua estradizione in Bangladesh è già stata negata: è difficile quindi che la condanna venga attuata. Le sue dimissioni e una qualche condanna a suo carico erano comunque tra i principali obiettivi dei manifestanti, ma anche ora che sono state ottenute il paese continua ad affrontare un problema più complicato, ossia attuare riforme per promuovere la democrazia nel paese.
Nel 2024, le proteste iniziarono su una questione molto puntuale: i manifestanti criticavano il sistema di distribuzione degli incarichi pubblici, ambiti perché considerati impieghi stabili e ben pagati, che secondo molti in Bangladesh favoriva alcuni e lasciava fuori molti altri. Presto però le proteste si allargarono e iniziarono a criticare più estesamente l’operato del governo, la diffusa corruzione e l’iniquità della società bengalese. A lungo Hasina era stata considerata una leader capace di rafforzare il sistema democratico in Bangladesh, ma negli ultimi anni il suo governo era diventato sempre più autoritario: era accusata di aver ordinato sparizioni forzate, omicidi politici e arresti arbitrari, e di aver usato la magistratura per perseguitare i propri oppositori politici.

Manifestanti festeggiano le dimissioni di Hasina, 5 agosto 2024 (AP Photo/Rajib Dhar)
Due giorni dopo le sue dimissioni venne nominato come primo ministro ad interim Muhammad Yunus, un economista molto apprezzato (vinse anche il Premio Nobel per la Pace), oltre che un rivale politico di lungo corso di Hasina. L’obiettivo del suo mandato non era semplice: doveva riportare il paese alla normalità dopo settimane di scontri violenti, ma soprattutto doveva gestire la transizione verso nuove elezioni, attuando una serie di riforme che avrebbero dovuto rafforzare la democrazia bengalese, contrastare la corruzione e migliorare le condizioni economiche delle fasce più povere della popolazione.
In questi mesi Yunus ha istituito varie commissioni incaricate di scrivere le proposte di riforma della Costituzione, della legge elettorale, della magistratura e delle forze dell’ordine, tra le altre cose. Ha poi fatto confluire tutte queste proposte nella Carta di luglio, un documento approvato il mese scorso dai principali partiti politici, dopo mesi di contrattazioni. Tra gli aspetti più rilevanti c’è la riduzione dei poteri del primo ministro (il Bangladesh è una repubblica parlamentare): il suo mandato è stato ridotto a un massimo di dieci anni e il presidente è stato incaricato della nomina dei capi di alcune importanti agenzie governative, in modo da renderle indipendenti dal governo. L’approvazione della Carta dovrà passare da un referendum che si terrà a febbraio, nello stesso giorno delle elezioni che dovrebbero sostituire il governo di Yunus con uno politico.

Il parlamento bengalese, 5 agosto 2024 (AP Photo/Fatima Tuj Johora)
Per arrivare a un accordo Yunus ha dovuto conciliare le istanze di decine di partiti, e in particolare quelle delle aree politiche più laiche e progressiste con quelle confessionali. Questo sforzo ha rallentato il processo di riforma, e Yunus è stato criticato da chi ha contribuito a farlo insediare soprattutto per aver ceduto alle istanze dei partiti legati all’Islam, la religione più diffusa nel paese. Dopo la destituzione di Hasina questi hanno ottenuto molta più visibilità, riuscendo a strappare a Yunus diverse concessioni.
Per esempio sono riusciti a far cancellare un programma per l’integrazione dell’insegnamento della musica e dell’attività fisica nelle scuole, che giudicavano contrario ai valori islamici. Il programma era invece fortemente appoggiato dall’ala progressista, e in particolare dagli studenti, che formavano una parte consistente dei manifestanti. L’ala islamica è inoltre riuscita a rallentare l’attuazione di una serie di riforme proposte dalla commissione per le pari opportunità, che tra le altre cose chiedeva modifiche ai diritti sull’eredità (da cui le figlie femmine sono escluse) e l’abolizione della poligamia.
Il governo di Yunus è accusato anche di non essere riuscito a contrastare in modo efficace l’aumento delle violenze da parte dei gruppi islamisti contro la comunità indù bengalese, che costituisce circa l’8 per cento della popolazione. Negli ultimi mesi ci sono stati casi di rapimenti, aggressioni e attacchi contro case, negozi e luoghi di culto indù, spesso giustificati con accuse di blasfemia rivolte a singoli cittadini. Le accuse sono per lo più infondate e usate come pretesto per legittimare violenze e intimidazioni. Per esempio, nel dicembre del 2024 diverse famiglie indù vennero aggredite e le loro case e templi devastati dopo che un ragazzo era stato falsamente accusato di aver pubblicato contenuti blasfemi.

Un’immagine di Muhammad Yunus, bruciata durante alcune proteste organizzate in India contro le violenze ai danni degli indù bengalesi, 11 dicembre 2024 (AP Photo/Ajit Solanki)
Nel frattempo i leader delle proteste della scorsa estate hanno fondato un partito, il Jatiya Nagorik o National Citizen Party (NCP). Hanno detto che si candideranno alle prossime elezioni con l’intento di costruire un nuovo Bangladesh e formare una «seconda repubblica». Alle elezioni si presenteranno anche il Jamaat-e-Islami, il principale tra i partiti musulmani, e il Partito Nazionalista del Bangladesh. Ne sarà esclusa la Lega Awami di Hasina: l’attività politica legata al partito è stata vietata in tutto il paese sulla base di una legge antiterrorismo. Nel paese però ci sono ancora molti suoi sostenitori, che in questi mesi si sono uniti alle accuse verso il governo ad interim di non proteggerli in modo efficace da violenze e persecuzioni.
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