• Italia
  • Lunedì 17 novembre 2025

Di questo passo per rispettare i tempi di esami e visite ci vorranno 40 anni

Negli ultimi mesi i miglioramenti sulle liste d'attesa nella sanità sono stati minimi, nonostante le promesse del governo

Medico visita una paziente anziana
Medico visita una paziente anziana (Bernd Weißbrod/dpa)
Caricamento player

Il ministro della Salute Orazio Schillaci ha detto alla Stampa che nell’ultimo anno le liste e i tempi di attesa per esami e visite hanno smesso di peggiorare e che, anzi, hanno iniziato a ridursi. I dati citati dal ministro però dicono molto altro: è vero, c’è stato un miglioramento, ma è stato davvero minimo, quasi impercettibile, come dimostrano l’insoddisfazione e le lamentele dei pazienti in ogni regione italiana. Talmente minimo che di questo passo servirebbero 40 anni per raggiungere gli obiettivi fissati dalla legge.

I dati per capire come vanno le cose arrivano dalla piattaforma nazionale delle liste d’attesa, messa online alla fine di giugno. È uno strumento di cui si parlava da anni, mai entrato in funzione per via delle resistenze delle regioni, che in Italia gestiscono la sanità. La piattaforma raccoglie tutti i dati delle prenotazioni di esami e visite fatte in ospedali o ambulatori sia attraverso il servizio sanitario nazionale sia dai medici in regime libero professionale, il cosiddetto intramoenia. I dati vengono trasmessi mensilmente dalle regioni.

La piattaforma dovrebbe garantire trasparenza, in realtà non è così facile leggere e interpretare i dati. Marcello Crivellini, professore di analisi e organizzazione di sistemi sanitari del Politecnico di Milano, li ha analizzati per l’associazione Luca Coscioni che da anni si occupa di diritti civili e diritto alla salute.

Per quanto riguarda gli esami, i dati dicono che da giugno a settembre ne sono stati prenotati poco più di 25 milioni. Di questi, 10 milioni sono stati accettati subito e messi in lista d’attesa secondo i tempi previsti dalla legge, quasi 15 milioni sono stati rifiutati: una parte dei pazienti preferisce aspettare a lungo, anche oltre i limiti indicati dalla prescrizione, una parte si rivolge a strutture private, un’ultima parte rinuncia all’esame.

Sulle 17,7 milioni di visite prenotate, invece, 6,1 milioni sono stati subito accettati e 11,6 milioni sono stati rifiutati.

Riassumendo questa analisi, emerge come nei primi nove mesi dell’anno il 58,1% degli esami sia stato fatto oltre i tempi previsti dalla legge e solo il 41,9% nel rispetto dei tempi. La situazione è peggiore per le visite: il 64,2% non rispetta i tempi, mentre solo il 35,8% viene fatto in tempo. Facendo una media tra esami e visite, il 39,4% rispetta i tempi, il 60,6% è in ritardo.

Crivellini sta tenendo d’occhio anche l’andamento nel tempo, un’operazione utile per capire se la situazione stia migliorando oppure no. Il rispetto dei tempi degli esami è migliorato di soli 0,2 punti percentuali da luglio a settembre, dal 41,7 al 41,9%, mentre quello delle visite è peggiorato di 0,2 punti percentuali, dal 36 al 35,8%.

L’obiettivo dovrebbe essere arrivare al 90%: «Se il lieve miglioramento si mantenesse tale come è accaduto negli ultimi mesi, sarebbero necessari 40 anni prima che il rispetto dei tempi di attesa per gli esami si verifichi. I dati indicano che l’attuale strategia del ministero e delle regioni è insufficiente», dice Crivellini.

Sono due le possibilità per ridurre le liste d’attesa: intervenire sulla domanda, cioè contenere il numero di esami e visite, oppure aumentare l’offerta.

Negli ultimi anni il governo ha sempre scelto la seconda opzione. Il decreto approvato nell’estate del 2024 proprio con l’obiettivo di ridurre i tempi di attesa ha stanziato circa un miliardo di euro per tre anni. I soldi servono per ampliare gli orari facendo esami e visite anche il sabato e la domenica o durante le ore serali. Il governo ha messo anche 250 milioni di euro per rendere gli straordinari più convenienti, tassandoli solo al 15%. Inoltre sono stati rimossi i limiti di spesa introdotti nel 2009 per l’assunzione di personale sanitario.

Già quando fu approvato il decreto, i sindacati dei medici avvertirono il governo della possibile inefficacia di queste misure, quasi esclusivamente economiche. I medici infatti lavorano già molte ore alla settimana, spesso al limite delle leggi europee sui riposi, e secondo le indagini commissionate dai sindacati negli ultimi anni una parte considerevole ha accusato sintomi da burnout.

Il decreto non è intervenuto per controllare la domanda attraverso la cosiddetta “appropriatezza prescrittiva”, cioè la richiesta congrua di esami e visite. L’appropriatezza prescrittiva non viene rispettata quando i medici – i medici di medicina generale o gli specialisti – prescrivono più accertamenti sanitari del necessario. Uno dei fattori che spingono questa domanda è la cosiddetta “medicina difensiva”, cioè il ricorso a un gran numero di esami e visite per prevenire il rischio di denunce da parte dei pazienti o dei loro parenti. Questo atteggiamento porta a prescrivere esami senza rispettare i protocolli indicati per gli accertamenti legati a diverse malattie, aumentando molto la domanda che poi influisce sui tempi e liste d’attesa.

Nell’intervista alla Stampa, Schillaci ha detto che un modo per migliorare la situazione è limitare la possibilità dei medici di esercitare la libera professione nelle strutture pubbliche, ovvero l’intramoenia. Attraverso l’intramoenia, la sanità pubblica mette a disposizione dei medici il sistema di prenotazione, gli ambulatori e i macchinari degli ospedali. Il costo della visita o degli esami, superiore rispetto a una visita prenotata con il servizio pubblico, viene ripartito solitamente all’80% ai medici e al 20% all’ospedale, ma è l’ospedale a decidere quanto lasciare ai medici.

Secondo Schillaci, la libera professione è un diritto che però non può negare la prestazione pubblica. Per questo il ministero sta valutando una sospensione temporanea dell’intramoenia almeno nelle strutture più problematiche. «Il problema nasce quando ci sono più prestazioni a pagamento che in servizio sanitario nazionale, quando l’attesa pubblica è di sei mesi e l’intramoenia di due settimane. Se lo sbilanciamento nega il diritto alle cure, è verosimile ipotizzare una sospensione temporanea. Il patto è chiaro: prima il pubblico, poi il privato convenzionato. Dove vediamo criticità, interveniamo per garantire equità».