Molte cose non tornano nei fondi del Piemonte per il sostegno alla maternità
Quelli di “Vita nascente”: sono stati spesi perlopiù da associazioni antiabortiste in modo – secondo alcuni – inefficace e opaco
di Giulia Siviero

Da qualche anno in Piemonte è attiva l’iniziativa “Vita nascente”, che dovrebbe essere a sostegno della maternità. È un progetto finanziato con più di 3 milioni di euro di fondi pubblici, andati nella grandissima parte dei casi ad associazioni antiabortiste. Contro “Vita nascente” sono già stati presentati due esposti alla Corte dei conti dalla presidente del gruppo consiliare del Movimento 5 Stelle in regione, Sarah Disabato. Altri stanno invece per essere presentati da altre associazioni. Ciò che si contesta è che questi fondi siano stati assegnati attraverso procedure anomale e che siano stati poi gestiti con ampia discrezione e in modo poco chiaro, senza la possibilità per la pubblica amministrazione di verificarne la pertinenza e l’efficacia.
Ma il problema non è solo che non c’è la possibilità di capire se lo strumento “Vita nascente” sia efficace rispetto agli obiettivi che si pone, ma anche il fatto che dei servizi di questo tipo vengano esternalizzati a privati: privati a cui vengono assegnati, con una scelta politica ben precisa, parecchi soldi pubblici non rispettando, secondo gli esposti, i criteri di professionalità, equità e trasparenza stabiliti dal settore pubblico. «Ci vorrebbero investimenti in politiche pubbliche strutturali, non mancette distribuite in modo arbitrario da privati con soldi sottratti al pubblico», riassume Disabato.

Maurizio Marrone durante una manifestazione di Fratelli d’Italia, Torino, 14 novembre 2023 (ANSA/TINO ROMANO)
L’obiettivo dichiarato dell’iniziativa “Vita nascente” «è sostenere concretamente le donne in difficoltà che stanno per diventare mamme» e quelle che «lo sono appena diventate», attraverso una serie di «progetti mirati al superamento delle cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza». Alla base del progetto c’è una legge regionale del 2022 promossa dall’assessore di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, definito da una delle associazioni antiabortiste più attive, Pro Vita & Famiglia, «uno degli assessori più pro life d’Italia». Il bando prevede l’erogazione di contributi a terze parti che «operano nel settore della tutela materno infantile» e che hanno avuto a disposizione 400mila euro nel 2022, e poi più del doppio negli anni successivi: 940mila nel 2023 e altrettanti nel 2024 e nel 2025.
Dei 460mila fondi messi a disposizione dal primo bando per le attività del 2023, 60mila sono andati a finanziare le attività di 4 soggetti socio assistenziali già presenti in regione, e gestiti da vari comuni e consorzi, mentre i restanti sono stati assegnati a 15 associazioni del terzo settore che sono quasi tutte dei CAV, cioè dei “Centri di aiuto alla vita”. I CAV sono legati al Movimento per la vita (MPV), uno dei più importanti gruppi antiabortisti italiani che dopo l’approvazione della legge 194, nel 1978, cominciò a lavorare per «salvare quante più vite possibili»: per scoraggiare cioè le donne ad abortire attraverso spazi e progetti a cui, di fatto, la stessa legge 194 dà spazio di azione.
Secondo il primo bando il contributo erogato era da spendere per un 15 per cento per il personale interno o in consulenze esterne, per un 10 per cento in pubblicità e promozione e infine per la realizzazione del progetto fino a esaurimento dell’intero importo assegnato. Ma le associazioni hanno ricevuto i fondi in modo indifferenziato, indipendentemente dal progetto presentato e dalle caratteristiche del territorio su cui agivano: a ciascuna sono stati riconosciuti 26.667 euro. Questo ha comportato che solo un’associazione abbia ricevuto una cifra molto vicina a quanto richiesto, che 10 abbiano ricevuto più soldi di quanto richiesto e che 4 ne abbiamo ricevuti di meno.
Il bando disponeva inoltre che queste risorse venissero erogate al 100 per cento in modo anticipato e che ciascuna associazione dovesse produrre una rendicontazione precisa delle spese sostenute e «un’accurata relazione» su quanto fatto.

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani con l’attuale presidente del Movimento per la vita Marina Casini a Palazzo Chigi, Roma, 6 dicembre 2023 (ANSA/ANGELO CARCONI)
Dall’analisi dei rendiconti sul primo anno del fondo fatta dal M5S e da “Più di 194 voci”, rete di associazioni, movimenti e sindacati in difesa della libertà e dell’autodeterminazione delle donne, risulta innanzitutto che le risorse siano state usate in modo vario: per pagare affitti, quote di mutuo e utenze delle famiglie (una delle voci principali). Poi anche per l’acquisto di attrezzature per l’infanzia e di beni quali farmaci, alimenti, latte per neonati, pannolini, passeggini.
In alcuni casi sono stati spesi per cose che sembrano avere poca attinenza con le finalità specifiche del bando stesso, come ad esempio batterie per bici elettriche, rimborsi per spese di viaggio, lavatrici, ma anche affitti di sale o pagamento del riscaldamento dei locali dove sono state preparate le borse di aiuti per le donne.
Anche se richiesto esplicitamente dal bando, i rendiconti presentati sono stati però molto generici e nella grande maggioranza dei casi le spese sostenute o rimborsate non sono state dettagliate. Eppure, spiega Disabato, «ogni beneficiario di contributo pubblico vincolato a una specifica destinazione ha l’obbligo di dare conto del relativo impiego dimostrando di aver utilizzato le risorse della collettività in modo coerente». Questo però non è avvenuto. E secondo Enrica Guglielmotti e Augusta Casagrande di “Più di 194 voci” non si tratta di un dettaglio formale, perché ci sono rischi concreti di uso improprio o inefficiente dei fondi che vengono erogati al 100 per cento in modo anticipato. La presentazione lacunosa di rendiconti e la mancata presentazione di «un’accurata relazione» sugli esiti dei vari progetti, non ha dato infine la possibilità di valutare la coerenza tra obiettivi dichiarati e risorse impiegate, né il loro impatto o la loro efficacia. Cosa che, sempre secondo Guglielmotti e Casagrande, andava valutata prima di proporre nuovi bandi con più soldi a disposizione.
Dalle rendicontazioni emergono criticità anche rispetto ai criteri scelti dalle associazioni per distribuire i fondi: nel senso che tali criteri non vengono né esplicitati né descritti. In alcuni casi viene citato l’ISEE, che misura la situazione economica di un nucleo familiare, ma nel complesso sembra che il criterio usato sia spesso legato alla casualità e all’estemporaneità.
Quanto richiesto dal bando è stato disatteso da molte associazioni anche per quanto riguarda le rendicontazioni specifiche su ciascuna donna coinvolta: i dati sono stati forniti spesso in forma aggregata sull’insieme delle utenti, in maniera disomogenea e con informazioni parziali. Sono parziali i dati sulla nazionalità (segnalati solo nel 47 per cento dei casi sul totale delle donne coinvolte, 449), e parziali quelli relativi all’età (non riportati nell’81 per cento dei casi). La situazione gestazionale, se neomamma o incinta, è stata riportata solo nel 49 per cento dei casi e in nessun caso è stato specificato esplicitamente il mese di gravidanza, il che ha reso nuovamente impossibile verificare l’obiettivo stesso del bando, ossia la rinuncia dell’interruzione di gravidanza per motivi economici.
La presenza di violenza domestica è stata segnalata solo in pochissime situazioni, e manca un’analisi sistematica di questo aspetto. La presenza di ulteriori casi di violenza la si può dedurre in base a generiche espressioni usate nelle brevi rendicontazioni: «disagio», «complessa gestione familiare», «litigiosità tra moglie e marito», «tensioni familiari», «tensioni di coppia»: «Nella maggior parte dei casi», dice Disabato, «viene sottolineato come venga seguito un percorso per far accettare la gravidanza, anche in presenza di fattori di fragilità sociali, economici, di salute e di violenza». Sembra che l’unica cosa importante sia far partorire queste donne a prescindere dalla condizione in cui si trovano, dicono Guglielmotti e Casagrande.


Ci sono carenze anche per quanto riguarda la documentazione della professionalità di chi ha lavorato ai progetti per conto delle associazioni, figure di cui «non conosciamo il profilo e che sono comunque chiamate ad assegnare fondi pubblici», dice Disabato. L’intervento psicologico, ad esempio, sembra limitarsi a una generica vicinanza umana, è spesso descritto con toni paternalistici come «assistenza morale», «supporto emotivo», «supporto mirato a celebrare la nascita» o come «aiuto a diventare una buona madre». Si usano espressioni come «rincuorare», «accoglienza della piccola vita», «percorso di accettazione della creatura».


Diversi dubbi hanno poi a che fare con le attività organizzate con questi fondi regionali che, secondo chi ha presentato l’esposto o sta per farlo, in molti casi non sembrano adeguate agli obiettivi: si parla ad esempio di corsi di svezzamento a donne che hanno già 9 figli, o di mostre con cartonati del papa. Altri dubbi ancora riguardano le altre associazioni del territorio con le quali il bando del 2023 prevede di coordinarsi, tra cui alcune che propongono “metodi naturali”, meno efficaci nella prevenzione delle gravidanze indesiderate e non protettivi per le malattie sessualmente trasmissibili.

“Vita nascente” è stata finanziata mentre servizi sanitari e sociali pubblici che hanno competenze adeguate e obiettivi chiari vengono da anni di definanziamenti che li hanno indeboliti. Ed è stata finanziata usando fondi prima destinati alle comunità familiari che accolgono minori. Secondo Disabato e “Più di 194 voci” si tratta di una scelta politica, che toglie risorse a soggetti istituzionali per darle ad associazioni senza competenze certificate che li utilizzano discrezionalmente per un supporto economico estemporaneo e casuale anziché investire le risorse in un programma strutturale sulla prevenzione e che promuova l’autodeterminazione delle donne.
Dai dati a disposizione si desume che la popolazione coinvolta nei progetti è estremamente fragile dal punto di vista sociale ed economico, in gran parte straniera. “Più di 194 voci” dice che a partire da queste situazioni di marginalità servirebbe ben altro per affrontare con serenità una gravidanza e la nascita di un figlio o di una figlia: un lavoro adeguatamente retribuito, un welfare che preveda asili nido gratuiti e una situazione abitativa stabile. Sono cose che vanno al di là del pagamento sporadico di alcune mensilità o bollette.

A seguito degli esposti e delle critiche ai criteri dei primi bandi e ai mancati controlli delle spese, in quello del 2025 approvato di recente sono state inserite alcune limitazioni: è stato introdotto un tetto massimo complessivo di spesa pari a 5 mila euro per ciascuna donna ed è stato inserito un elenco più preciso delle spese «non ammissibili», come l’affitto di sedi, le spese per biglietti da visita o eventi, per il noleggio di mezzi o di computer e altro ancora. Per Disabato, resta comunque il fatto che non è stata data una risposta adeguata su quanti e quali controlli siano stati effettuati finora. In particolare non è possibile sapere se è stata rispettata la “clausola di reintroito” prevista dai bandi, cioè la restituzione dei soldi alla regione in caso di mancato o parziale utilizzo: insomma la modifica, dice Di Sabato, sembra più «un tentativo di correggere in corsa una gestione confusa, piuttosto che una reale volontà di garantire trasparenza e correttezza».
Iniziative come “Vita nascente” non sono comunque una cosa tutta italiana, si inseriscono piuttosto in un più ampio contesto raccontato in un report dell’EPF, una rete di parlamentari europei impegnati nella tutela dei diritti riproduttivi e sessuali. Il report spiega che il mutevole panorama dell’attivismo antiabortista e antigender in Europa tra il 2019 e il 2023 ha ottenuto 1,18 miliardi di dollari in finanziamenti, di cui il 14 per cento da fondi pubblici.

(Accanto ad alcuni paesi, compresa l’Italia, è presente un asterisco: significa che alcuni dati non sono stati resi disponibili per la stesura del rapporto)
Per quanto riguarda le strategie emergenti di questi movimenti e associazioni, e in modo specifico l’aborto, il report ne descrive tre: il divieto, la restrizione (cioè l’insistenza sulla creazione di ostacoli per cui sebbene l’accesso legale rimanga sulla carta, queste restrizioni producono di fatto un’inaccessibilità), e infine la prevenzione che mira a limitare l’accesso all’aborto attraverso la creazione di infrastrutture e di servizi per la gravidanza: centri che operano dissuadendo e disinformando le donne sulla loro salute e sui loro diritti, scoraggiando così gli aborti senza passare per modifiche legislative. Per l’Italia si citano esplicitamente i 300 CAV istituiti su tutto il territorio dal Movimento per la vita.



