I depositi di archivi e musei si stanno aprendo

«Soprattutto non sapevo che la mia curiosità per quello che c’è sotto-dietro-oltre un museo era scoccata in anni in cui i depositi cominciavano ad aprirsi davvero. Né immaginavo che un giorno avrei raccontato questa trasformazione, che non riguarda solo l’Italia, durante un convegno internazionale»

Ragazze e ragazzi in skateboard davanti al Depot Boijmans Van Beuningen di Rotterdam (Pierre Crom/Getty Images)
Ragazze e ragazzi in skateboard davanti al Depot Boijmans Van Beuningen di Rotterdam (Pierre Crom/Getty Images)
Ilaria Parini
Ilaria Parini

Storica dell'arte e curatrice indipendente, collabora con l'Archivio Barbarigo Cadorin Music di Venezia ed è iscritta alla Scuola di specializzazione in Beni storico-artistici all'Università di Bologna. A Rovigo ha ideato e cura Edicò, un progetto di valorizzazione di un'ex edicola come hub artistico e culturale.

Caricamento player

Ci fu un istante in cui mi domandai per la prima volta che cosa ci fosse dietro a quello che vedevo in un museo e dove portassero le porte che era vietato oltrepassare. Oggi i musei d’arte sono diventati parte della mia quotidianità, ma allora erano solo sale luminose con i dipinti alle pareti, le visite guidate, il silenzio delle sale. Ho il vago ricordo di aver avuto un’illuminazione ai tempi del liceo quando, durante una visita a Palazzo Pitti a Firenze, mi passò davanti agli occhi una cassa diretta verso una sala in cui stava scritto “allestimento in corso”. Da quel momento sapere è diventata una specie di ossessione: che cosa succedeva in quegli spazi “inaccessibili” e chi decideva cosa mostrare e cosa no?

È stato solo quando ho iniziato a studiare storia dell’arte all’università di Venezia, che ho capito che il “dietro le quinte” era molto più vivo e interessante di quanto immaginassi. E che dietro parole apparentemente noiose come “deposito museale” o “archivio” si nasconde un mondo pieno di storie, decisioni e anche di dibattiti su come mostrarsi al pubblico. All’epoca sapevo pochissimo sull’argomento.

All’università si studiano i musei da un punto di vista teorico, ma raramente si parla del loro funzionamento quotidiano. Non avevo mai visto un deposito, né immaginavo quanto fosse centrale per la vita di un museo. Soprattutto non sapevo che la mia curiosità per quello che c’è sotto-dietro-oltre un museo era scoccata in anni in cui i depositi cominciavano ad aprirsi davvero e a essere concepiti come qualcosa di prezioso da mostrare al pubblico. Né immaginavo che un giorno avrei raccontato questa trasformazione, che non riguarda solo l’Italia ed è stata il tema della mia tesi magistrale, durante un convegno internazionale della Fondazione Mondadori dedicato a come stanno cambiando archivi e musei, che si terrà alla Triennale di Milano l’11 novembre.

A destra, con le mani incrociate, il re Willem-Alexander Claus George Ferdinand dei Paesi Bassi all’inaugurazione del Depot Boijmans Van Beuningen Museum di Rotterdam il 5 novembre 2021 (Patrick van Katwijk/Getty Images)

Un dato mi aveva colpito particolarmente: secondo un sondaggio condotto da ICCROM e UNESCO nel 2011, solo il 5 per cento delle opere conservate nei musei di tutto il mondo è esposto al pubblico. Il restante 95 per cento resta nei depositi, invisibile ai visitatori. È passato un decennio, ma i dati non sono molto diversi: uno studio di ICOM, la principale organizzazione non governativa dedicata ai musei, condotto nel 2023 su un campione di 1132 musei di tutto il mondo, mostra che nel 70 per cento dei casi meno del 15 per cento delle collezioni è visitabile. All’epoca della prima indagine, il dato creò tanto clamore da ispirare articoli intrisi di romanticismo e animati da una esagerata fiducia nella possibilità di scoprire “tesori nascosti” nei musei, anche se a volte può accadere davvero.

A me è capitato qualcosa di simile durante il tirocinio alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, quando un Bassorilievo con volto femminile velato conservato nei depositi fu attribuito ad Antonio Corradini, lo scultore famoso per le sculture velate e per aver realizzato il bozzetto del Cristo velato della Cappella Sansevero di Napoli. Da questa scoperta sta nascendo una mostra che, dal 14 dicembre, presenterà al pubblico un’opera rimasta a lungo lontana dagli sguardi.

Un caso simile è avvenuto anche al Museo Correr di Venezia, dove di recente un dipinto raffigurante una Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante è stato attribuito al giovane Andrea Mantegna. Anche quest’opera non era mai stata esposta, a causa dello stato di conservazione che ne rendeva difficile la lettura. La nuova attribuzione è arrivata dopo un intervento di restauro che ha rivelato la qualità della mano, riportando alla luce un lavoro rimasto invisibile per secoli.

Spesso le ragioni per cui una parte consistente del patrimonio artistico e documentaristico rimane invisibile sono pratiche. Opere e documenti finiscono nei depositi per motivi di spazio, per scelte museologiche, per questioni conservative o per criteri qualitativi. Archivi e musei non sono organismi immobili, ma crescono continuamente tra donazioni, nuove acquisizioni e comodati. È quindi naturale che solo una parte possa essere esposta e che il resto sia conservato in ambienti dove i parametri di temperatura, umidità e luce sono controllati. Col tempo ho imparato che non c’è nulla di strano in questo equilibrio tra visibile e invisibile. Quello che invece non dovrebbe accadere è che le collezioni esposte restino immutate e che musei e archivi siano concepiti e gestiti come organismi immobili, definiti una volta per tutte.

I depositi, intesi come spazi organizzati secondo criteri di inventariazione e conservazione, sono un concetto relativamente recente: si cominciò a discuterne solo nel secolo scorso. Nei primi musei europei moderni, tra Settecento e Ottocento, la tendenza era esporre tutto. Le pareti erano affollate di quadri e oggetti, un vero horror vacui. Le scelte espositive rispondevano a precisi programmi ideologici o didattici, e ogni allestimento era anche una dichiarazione di intenti. Al contrario negli archivi tutto tendeva a essere nascosto, per essere protetto dall’usura del tempo, ma anche dalla curiosità di un pubblico più vasto di quello rappresentato dagli esperti. Oggi, in entrambi i casi, si pensa che alla conservazione debba essere sempre affiancata la valorizzazione.

Giovanni Paolo Pannini, Galleria di vedute di Roma antica, 1758, olio su tela, 231×303 cm, Museo del Louvre, Parigi (via Wikimedia)

Tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, anche grazie ai congressi internazionali, si afferma una nuova idea di allestimento museale, più sobria e selettiva. Le sale si svuotano, le opere vengono selezionate e la quantità lascia spazio alla leggibilità. Un momento chiave di questa trasformazione fu la prima conferenza internazionale di museografia di Madrid nel 1934. Ma quella svolta ebbe anche un effetto collaterale inevitabile: l’aumento delle opere in deposito.

Durante la Seconda guerra mondiale i depositi assunsero un ruolo diverso, diventarono i rifugi per proteggere il patrimonio, una funzione che, purtroppo, resta ancora attuale. Nel dopoguerra, l’attenzione si spostò sulla qualità di questi spazi: sulle condizioni ambientali e sulla necessità di standard più rigorosi. A partire dal 1948, con la nascita di ICOM (l’International Council of Museums di cui abbiamo già parlato), maturò anche un’altra idea: i musei dovevano aprirsi al pubblico e al territorio circostante, superando l’immagine di luoghi chiusi ed esclusivi. La stessa cosa, più lentamente, cominciò a valere anche per gli archivi, anche se il loro valore per un pubblico generico era meno evidente.

Negli anni Sessanta e Settanta, in un clima di contestazione e di democratizzazione delle istituzioni, il rapporto tra musei e pubblico diventò centrale. Anche i musei furono accusati di essere luoghi elitari. In quel contesto cominciò a svilupparsi una nuova sensibilità verso il cosiddetto “patrimonio invisibile”: la convinzione che i musei avessero il dovere di mostrare anche ciò che normalmente restava nascosto, e di dare spazio ad artisti e opere rimaste ai margini delle sale espositive.

Nel 1976 alla Smithsonian Institution di Washington si tenne la prima conferenza internazionale dedicata ai depositi museali, organizzata da ICOM e UNESCO, il cui focus erano proprio i problemi di gestione. Lo stesso anno, in Canada, arrivò anche il primo esempio concreto di visible storage – uno spazio di deposito integrato nel percorso di visita – al museo etnografico dell’Università della British Columbia di Vancouver. Non era un caso che fosse un museo etnografico: proprio in quegli anni si iniziò a discutere della legittimità dei musei occidentali nel conservare oggetti appartenenti ad altre culture. Rendere i depositi accessibili significava restituire, almeno in parte, trasparenza e responsabilità verso quel patrimonio.

L’esperimento canadese ebbe seguito in altri musei americani. In Italia il primo caso arrivò nel 1982, quando la Pinacoteca di Brera destinò due sale del percorso museale a deposito, per facilitare la movimentazione delle opere. Nel 2001 ne aggiunse una terza: un laboratorio di restauro trasparente progettato da Ettore Sottsass, pensato per ridurre gli spostamenti delle opere, e quindi i rischi, e per permettere ai visitatori di assistere da vicino ai restauri.

Il laboratorio di restauro progettato da Ettore Sottsass alla Pinacoteca di Brera, Milano (via Wikimedia)

Queste prime sperimentazioni diedero vita a una pratica che oggi è diventata quasi una tendenza per i musei. Anche se gli open e visible storage non sono molto diffusi, soprattutto in Italia, dove la natura storica degli edifici rende difficile la loro realizzazione, hanno spinto i musei a essere più consapevoli della propria responsabilità nel mostrare il patrimonio che custodiscono.

In Italia si possono visitare degli open storage come la “seconda pinacoteca” della Galleria Borghese, la Galleria degli autoritratti degli Uffizi e quello del MUDEC di Milano, museo etnografico i cui depositi sono progettati ad hoc anche per essere visitabili. Ma anche mostre temporanee dedicate interamente ai depositi, come “Il Deposito Vivente” conclusa da poco alla GAM di Torino.

Negli ultimi anni la riflessione è andata oltre, verso modelli più funzionali e sostenibili: i collection centers e i depositi-museo. I primi sono grandi strutture condivise, in cui vengono raggruppati i depositi di diversi musei di una stessa area. Raccolgono in un solo luogo la conservazione, il restauro e la ricerca. In Italia uno degli esempi più noti è il deposito d’emergenza del Palazzo Ducale di Sassuolo, creato dopo il terremoto in Emilia-Romagna del 2012. Un altro è quello dei Frigoriferi Milanesi gestiti da Open Care, in cui convivono conservazione, restauro e spazi di stoccaggio, a servizio sia dei musei pubblici sia delle collezioni private.

I depositi-museo nascono invece da un concetto diverso: una collezione in deposito diventa il nucleo attorno al quale fondare una nuova istituzione. In Europa ci sono casi emblematici come il Louvre-Lens di Parigi e il V&A East Storehouse di Londra, nati come costole dei famosi musei. E soprattutto il Depot Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, inaugurato nel 2021: un edificio interamente pensato come deposito visitabile, dove le opere non sono solo conservate ma anche esposte su rastrelliere, invece che sulla classica parete monocromatica. Allo stesso modello si ispira anche il Seoripul Open Art Storage di Seul in Corea del Sud, che riunirà i depositi e gli archivi di tre musei della città e dovrebbe essere completato entro il 2028.

Mentre in Europa si lavora a progetti come questi, in Italia, pochi giorni fa, è emersa una nuova proposta: esporre le opere “nascoste” dei depositi museali nelle sedi aziendali. Anche quest’idea, avanzata dal presidente della Fondazione Assolombarda, va nella direzione dell’apertura anche se apre una riflessione sulla legittimità di esporre il patrimonio pubblico in contesti privati, in una cornice decontestualizzata, ma soprattutto sembra ancora legata a una retorica che considera i depositi spazi statici e polverosi quando in realtà sono, o meglio dovrebbero essere, luoghi di lavoro, studio e ricerca.

V&A East Storehouse (Stuart C. Wilson/Getty Images)

– Leggi anche: A Londra ha aperto un museo diverso

Questa tensione verso l’esterno non coinvolge soltanto le opere d’arte, ma anche i documenti e, quindi, gli archivi che per molto tempo sono stati considerati di più difficile comprensione per il grande pubblico, ma oggi vengono sempre più percepiti come luoghi da valorizzare, mostrare e raccontare. Del resto, come nel caso degli archivi d’artista, sono indissolubilmente legati alle opere, ne permettono la contestualizzazione e possiedono un valore storico e culturale.

Oggi la fruibilità del patrimonio culturale non passa solo attraverso i depositi accessibili. Esistono altre strade: le mostre temporanee, la rotazione delle collezioni, i prestiti esterni e, sempre di più, la digitalizzazione che ha assunto un ruolo centrale a partire dal 2003, con l’adozione della Carta UNESCO per la conservazione del patrimonio culturale digitale. Il ministero della Cultura italiano se ne occupa nel piano 2022-2023, che promuove l’uso delle tecnologie digitali, dalla catalogazione alla fruizione online. Ma la digitalizzazione pone problemi che non sono meno complessi di quelli del patrimonio analogico, in termini ambientali e di conservazione.

Negli ultimi anni i musei europei hanno preso molto seriamente la missione di avvicinare il patrimonio al pubblico, arrivando a elaborare le proposte di cui si è parlato. Camminare all’interno di un deposito pieno di oggetti artistici è un fatto a dir poco sorprendente, quasi straniante. I depositi trasformati in musei ricordano le wunderkammer, le antiche camere delle meraviglie dove la curiosità e lo stupore arrivano prima di ogni spiegazione.

Non è un caso che sia tornato di moda l’allestimento “a quadreria”: quel display che permette di vedere “a colpo d’occhio” un gran numero di opere appartenenti a periodi storici tra i più disparati, lasciando il pubblico libero di muoversi senza un percorso preciso ma esponendolo anche al rischio di non cogliere il senso degli oggetti esposti e il loro contesto. E allora, queste esperienze “aperte” possono dirsi davvero democratiche o rischiano di scivolare in un’ennesima forma di spettacolo?

Forse anche qui la misura sta nel mezzo: in quello spazio incerto dove curiosità e conoscenza si incontrano, tra l’invito alla libertà di perdersi nel paesaggio del patrimonio artistico e la necessità di fornire una mappa per orientarsi. È in questo equilibrio provvisorio, che musei e archivi possono rimanere organismi vivi, capaci di trasformarsi.

Il riallestimento della collezione permanente del Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto – dicembre 2024; dettaglio di una parete “a quadreria” dove alle opere d’arte sono affiancati documenti d’archivio degli stessi anni (foto di Ilaria Parini)

– Leggi anche: Il lato positivo della pandemia per il più grande archivio sulle vittime del nazismo

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su