I migranti che andavano dall’Italia all’Africa
Negli anni Trenta le migrazioni nel Canale di Sicilia andavano in direzione opposta a quelle di oggi: lo racconta "Mare aperto", il libro di Luca Misculin

Il mar Mediterraneo è una regione molto varia e l’eterogeneità della sua lunga storia è probabilmente l’elemento che più lo distingue da altre regioni del mondo. Lo spiega bene Mare aperto, il libro di Luca Misculin, giornalista del Post, che è stato pubblicato oggi da Einaudi nella rinnovata collana dei Maverick.
Mare aperto è un saggio-reportage che racconta millenni di storia del Canale di Sicilia, il quadrato di mare fra la Sicilia, Malta, la Tunisia e la Libia: un punto di osservazione privilegiato per conoscere l’intero Mediterraneo. Nel libro si parla fra le altre cose dei commerci di ossidiana del Neolitico, di pirati, uccelli migratori, sperdute chiesette, cavi sottomarini che portano Internet e ovviamente umani che si spostano. Ne pubblichiamo un estratto dal quinto capitolo, dedicato al colonialismo italiano e a chi si imbarcò dall’Italia per cercare una nuova vita in Nord Africa.
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«Quando arrivammo al porto c’era tutto un formicolio di persone, chi con la valigia, chi con sacchetti stracolmi di indumenti, bimbi che piangevano, molto probabilmente avevano dormito poco e male. Certamente molti di noi vedevano il mare per la prima volta», scrisse E. nel suo diario.
La traversata, aggiunse E., durò diversi giorni, a bordo di un’imbarcazione stracarica di persone: «La mamma e I. soffrivano il mal di mare e molto spesso erano costretti a rimanere in coperta per non stare male».
All’arrivo, raccontò invece N., «ci misero in fila e ad ogni capofamiglia diedero una sporta piena di viveri». Laggiù «c’erano ad aspettarci cento camion, me li ricordo bene, pronti a portarci a destinazione. Su ogni camion erano stipate due famiglie. […] Siamo stati i primi a partire; ricordo che la mamma disse: “Vuoi vedere che siamo i primi a partire e saremo gli ultimi ad arrivare?” Infatti così è stato: ricordo i suoi pianti».
G., che vide sbarcare questa enorme «colonna» di persone, la descrisse così: «donne incinte, bambini lattanti, ragazzi; tutti hanno qualche necessità e a tutto occorre pensare e provvedere».
Testimonianze del genere potrebbero descrivere l’arrivo di centinaia di migranti sul molo di Lampedusa, in una di quelle giornate estive – piuttosto frequenti, negli ultimi anni – in cui all’orizzonte compaiono diverse imbarcazioni usa e getta partite dalle coste del Nord Africa. Questi scritti, raccolti dallo storico Nicola Labanca nel suo libro Posti al sole, raccontano invece di un movimento interno al Canale di Sicilia ma nella direzione esattamente opposta: dalle coste italiane a quelle della Libia, negli anni in cui il regime fascista spedì migliaia di famiglie contadine nell’entroterra libico per cercare di colonizzarlo.
L’obiettivo, nemmeno così implicito, era la sostituzione etnica: anche questa, da una prospettiva ribaltata rispetto ai termini in cui viene discussa oggi. A quei tempi significava mettere in minoranza le persone di etnia araba e berbera che abitavano la Libia prima della conquista italiana, avviata nel 1911. «Se i mezzi non ci faranno difetto, fra un quarto di secolo almeno 300 000 italiani dovranno vivere, lavorare, prosperare in Libia; e saranno più che sufficienti per controbilanciare la popolazione indigena», prefigurò nel 1927 l’allora ministro delle Colonie, Luigi Federzoni, in un discorso al Parlamento italiano.
Il tentativo del regime fu del tutto fallimentare. E come spesso accadde per le operazioni fasciste di ampia scala, la distanza fra le aspettative dei gerarchi e la messa in pratica fu enorme, con conseguenze a volte tragiche, altre ridicole, spesso sia tragiche sia ridicole.
La Libia fu occupata con una violenza spaventosa, a fronte dell’immagine degli italiani come colonizzatori benevoli promossa dalla propaganda fascista: nelle lunghe campagne di conquista delle città e dell’entroterra libico furono uccise e deportate migliaia di persone. Nei terreni bonificati a costo di investimenti enormi non si riuscì a far crescere quasi nulla.
Dei circa 112.000 italiani che abitavano in Libia nel picco dell’occupazione, fra il 1938 e il 1939 – la stima è del ricercatore Luigi Scoppola Iacopini –, più della metà tornarono mestamente in Italia entro il 1947, mentre quasi tutti gli altri lo fecero negli anni appena successivi, controvoglia, increduli di dover abbandonare la propria casa dopo essersi illusi per anni di poterci vivere da padroni, come del resto aveva garantito loro il regime.
Anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la caduta del fascismo e l’occupazione della Libia da parte degli inglesi, i coloni italiani ci misero un po’ a capire che la loro condizione era cambiata in maniera irreversibile. «La prima impressione che abbiamo riportato arrivando a Tripoli, – scrissero nel novembre del 1946 alcuni funzionari del ministero degli Esteri del neonato governo democratico italiano in missione in Libia, – è stata che la cittadinanza fosse rimasta ferma alle idee politiche del ’43, prima della caduta del fascismo, e che non si fosse accorta di quel che in Italia era avvenuto successivamente. Un indizio chiaro di questa mentalità l’abbiamo trovato nel fatto che parecchie persone ci salutavano romanamente e si stupivano della nostra meraviglia». (…)
La vita degli ex coloni si fece sempre più difficile. Nel 1964 rimanevano in Libia soltanto 120 famiglie italiane tra quelle arrivate durante il tentativo fascista di colonizzazione di massa. Cinque anni dopo, il 10 settembre 1969, il colonnello Muammar Gheddafi prese il potere con un colpo di stato, facendo leva su una retorica a metà fra il nazionalismo, il sentimento anti-italiano e una qualche eco di socialismo. Meno di un anno dopo, il 21 luglio 1970, Gheddafi firmò un decreto di confisca totale delle proprietà italiane. Il 7 ottobre Gheddafi emanò il decreto finale che ordinava l’espulsione dalla Libia di tutti gli italiani entro la metà del mese.
In quelle settimane gli italiani rimasti fra commercianti, imprenditori ed ex coloni furono rimpatriati a bordo di alcuni voli e di nove navi della marina mercantile. Le navi sbarcarono a Napoli, e i «profughi» – così vennero definiti dai giornali – furono distribuiti in centri di accoglienza in Campania, Puglia e Lombardia. Ad accoglierle in porto c’erano i militanti del Movimento sociale italiano, che agghindati in camicia nera sventolarono piccole e tristi bandiere italiane.
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