La formula molto, molto dubbia con cui gli Stati Uniti hanno calcolato i dazi

Secondo gli economisti è del tutto insensata, e rende i dazi annunciati molto diversi da come li racconta Trump

Il noto meme Math Lady
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Ci sono diversi dubbi sulla solidità della formula con cui il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha calcolato i dazi annunciati mercoledì sera da Donald Trump, che hanno l’obiettivo di tassare e penalizzare le merci straniere importate. La formula diffusa dallo stesso dipartimento è estremamente semplice, e usa come base il deficit commerciale degli Stati Uniti verso i diversi paesi: è quel valore che indica che gli Stati Uniti importano più di quanto esportano verso altri, e di quanto. Il deficit viene poi diviso per il totale delle importazioni da quel paese. Per esempio il deficit commerciale con l’Indonesia è di 17,9 miliardi di dollari, e le importazioni dall’Indonesia sono di 28 miliardi: 17,9 diviso 28 fa 0,64, cioè 64 per cento.

Il dipartimento ha poi preso questo 64 per cento, l’ha diviso per due (una specie di «sconto», secondo Trump, dovuto alla «gentilezza» degli Stati Uniti) e ha ottenuto il dazio da applicare: è del 32 per cento su tutte le merci provenienti dall’Indonesia. Per gli economisti questo calcolo è del tutto insensato, per diverse ragioni.

Donald Trump tiene in mano una tabella mostrando gli «sconti» sui dazi, mercoledì 2 aprile 2025 (AP Photo/Mark Schiefelbein)

Usando il deficit commerciale, parte di fatto da una supposizione molto problematica: che gli Stati Uniti importino da un paese di più di quanto esportino a causa di pratiche commerciali sleali che questo avrebbe messo in atto. È una relazione causale che non si può presumere, ed è anche molto difficile da dimostrare.

In più usando il deficit commerciale di fatto si creano dazi di natura diversa da quelli raccontati da Trump. Li ha chiamati “reciproci”, e li considera necessari agli Stati Uniti per essere in qualche modo compensati e risarciti per tutte le barriere commerciali che gli altri paesi impongono loro, dai dazi alla burocrazia doganale, da rigide normative sanitarie a tasse aggiuntive. Ci si aspetterebbe quindi che il valore del dazio debba essere commisurato alla stima dell’eventuale danno ricevuto dagli Stati Uniti. Non è così.

«Ora gli economisti capiscono come si erano sentiti gli scienziati quando [Trump] disse “iniettatevi della candeggina”»

Del resto il deficit commerciale è un’ossessione storica di Trump, che lo ritiene un segno di debolezza per il paese, da sempre più importatore che esportatore: rappresenta in breve quanto gli Stati Uniti sono esposti verso un altro paese, e il loro debito commerciale verso lo stesso. Il dazio risulta alla fine commisurato al debito commerciale verso i diversi stati, che di fatto vengono puniti per aver venduto troppa merce agli Stati Uniti.

Peraltro la formula tiene in considerazione solo il commercio di prodotti fisici, in cui gli Stati Uniti hanno un deficit, mentre esclude quello di servizi, su cui invece gli Stati Uniti sono molto più forti degli altri paesi e hanno un surplus. È una scelta conveniente, perché nel calcolo rende il dazio dovuto più alto, ma contribuisce a rendere la metodologia di calcolo ancora più traballante.

La formula pubblicata sul sito del dipartimento del Commercio: al numeratore il deficit (che è la differenza tra esportazioni, x, e importazioni, m), e al denominatore le importazioni dal paese considerato (m). Gli altri fattori nella formula sono l’elasticità della domanda al prezzo ε e il grado di trasmissione dei dazi φ.

Gli economisti stanno poi discutendo molto del metodo grezzo e sciatto con cui è stato trattato un fenomeno estremamente complesso come il commercio internazionale, liquidato di fatto con una frazione quando in realtà dipende da moltissime variabili, come il comportamento di consumatori, aziende e altri governi, e il funzionamento della logistica, solo per dirne alcune. L’unico tentativo di complessità è dato dai parametri statistici che aggiustano le importazioni al denominatore. Semplificando molto, servono a stimare alcune caratteristiche del mercato: sono la cosiddetta elasticità della domanda al prezzo (cioè quanto i consumatori sono sensibili a variazioni di prezzo) e il grado di trasmissione dei dazi (cioè la capacità delle aziende di sobbarcarsi l’onere della tassa senza trasferirla ai clienti).

Il giornalista James Surowiecki, che tra le altre cose scrive per il New Yorker, mostra come funziona il calcolo dei dazi ed evidenzia le incoerenze dello staff della Casa Bianca.