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  • Martedì 11 marzo 2025

Non serviva Donald Trump perché la Groenlandia discutesse della sua indipendenza

I partiti che partecipano alle elezioni sono d'accordo sui danni del passato coloniale, meno su come allontanarsi dalla Danimarca

di Matteo Castellucci

Una veduta di Nuuk dal rilievo dove si trova la statua di Hans Egede
Una veduta di Nuuk dal rilievo dove si trova la statua di Hans Egede (il Post)
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«Quand’ero giovane, ogni volta che citavo l’indipendenza mi dicevano che gli americani avrebbero provato a impadronirsi di noi», racconta Aqqaluk Lynge, «cinquant’anni dopo mi rendo conto che era vero». Lynge è il cofondatore del partito di sinistra ambientalista che governa la Groenlandia dal 2021, Inuit Ataqatigiit (Comunità Inuit), ma non si ricandiderà alle elezioni di martedì, nonostante molti lo volessero. Quattro partiti locali su cinque, tra quelli che partecipano, vogliono l’indipendenza dal Regno di Danimarca, una questione di cui si discute da decenni: si differenziano soprattutto per come pensano di realizzarla. E pure il quinto, l’ultimo partito unionista rimasto, ci sta ripensando.

Lynge indica la Groenlandia su una mappa dell’Artico e ferma il dito al centro dell’isola: «Se Donald Trump atterra sulla calotta glaciale, è libero di farlo e congelarsi il culo», ride. Le mire espansionistiche del presidente degli Stati Uniti sulla Groenlandia hanno avuto diversi effetti: da una parte hanno messo addosso ai partiti groenlandesi un’urgenza che non avevano rispetto alle discussioni sull’indipendenza; dall’altra hanno fatto riscoprire al governo danese l’importanza dell’enorme isola, di cui controlla la politica estera e di difesa.

Aqqaluk Lynge nella sua casa sul fiordo di Nuuk, l’8 marzo (il Post)

Ma soprattutto hanno accelerato il dibattito sul passato coloniale della Danimarca, che cominciò un migliaio di anni fa con i primi insediamenti vichinghi e si intensificò a partire dal Diciottesimo secolo con la cristianizzazione forzata delle popolazioni Inuit per opera dei danesi. La statua di Hans Egede, il missionario soprannominato “l’Apostolo della Groenlandia”, domina ancora il porto vecchio di Nuuk, ma molti la vorrebbero togliere, ritenendola un simbolo di come l’identità indigena sia stata soppressa e negata per secoli.

Il dibattito sull’indipendenza e il passato coloniale della Groenlandia è stato rianimato anche in Danimarca, e non solo da Trump: nelle scorse settimane ha fatto la sua parte anche un documentario trasmesso dalla tv danese DR secondo cui le aziende minerarie danesi hanno guadagnato l’equivalente di 54 miliardi di euro dallo sfruttamento di una grossa miniera groenlandese di criolite.

L’accuratezza della cifra è stata contestata, e DR ha ritirato il documentario, ma è incontestabile che la Danimarca abbia lucrato sulla Groenlandia, senza restituirle o reinvestire quei profitti. «Un’opinione molto comune era che i groenlandesi dovessero essere grati per l’aiuto ricevuto, ma questa retorica oggi è in crisi», spiega Frank Sejersen, professore del dipartimento di Studi groenlandesi e artici dell’università di Copenaghen.

Il consolato degli Stati Uniti che si trova nella zona del porto di Nuuk, il 9 marzo (il Post)

Ma anche prima del documentario era in corso una rilettura della storia coloniale danese. Nel 2017 si è scoperto che fra gli anni Sessanta e Settanta il governo dispose l’impianto forzato di dispositivi contraccettivi in migliaia di donne groenlandesi. Nel 2020 la prima ministra Mette Frederiksen si scusò con i bambini Inuit che nel 1951 furono portati via dalla Groenlandia per un esperimento sociale. Erano gli anni della “modernizzazione”, che si intensificò dopo che la Danimarca, nel 1953, cambiò lo status della Groenlandia da colonia a provincia (l’autogoverno iniziò nel 1979).

Un’opera dell’artista locale Kristian Christiansen ritrae Trump con un remo e i tradizionali occhiali da neve Inuit, al centro culturale Katuaq, il 7 marzo (il Post)

Negli anni successivi il governo danese spinse per l’abbandono degli insediamenti più piccoli a favore dei più grandi, e impresse un’industrializzazione forzata a una società di cacciatori e pescatori. Gli anni Settanta e Ottanta furono quelli in cui aumentò drasticamente il tasso di suicidi, che è ancora oggi il più alto al mondo. Soprattutto tra i giovani, soprattutto sulla costa Est, la più povera. Secondo Ivalu Katajavaara Seidler, ricercatrice dell’università della Danimarca meridionale che ha studiato il fenomeno, c’è un tema di decolonizzazione anche nell’assistenza psicologica.

«La nostra storia ancora non ci appartiene, è stata scritta dai colonizzatori. Ma per fare una prevenzione più efficace, dobbiamo capire perché abbiamo avuto così tanti suicidi, e dobbiamo capire la nostra storia». Oggi il tema non è più un tabù, come fino a pochi anni fa, e il numero d’emergenza per chi ha pensieri suicidari è attivo tutto il giorno, non più solo alcune ore. Restano problemi strutturali, però. Per esempio l’università di Nuuk non ha corsi di Psicologia né di Medicina: bisogna studiarle all’estero, che quasi sempre significa in Danimarca, e non è scontato tornare. In Groenlandia molti degli specialisti sono danesi e non parlano groenlandese. 

La statua del missionario luterano Hans Egede che domina il porto vecchio di Nuuk e negli ultimi anni è diventata divisiva, il 6 marzo (il Post)

Le barriere linguistiche e culturali rendono complicato interpretare correttamente le risposte dei loro pazienti, per i quali il danese è la seconda lingua (o la terza dopo l’inglese). «Non puoi tradurre le tue emozioni in un’altra lingua», spiega l’attivista Linda Lyberth Kristiansen, che fa parte della segreteria del network di cooperazione internazionale Arctic Circle. «Siamo un paese solo parzialmente decolonizzato», dice citando la burocrazia e l’istruzione, soprattutto superiore e universitaria, che avvengono quasi esclusivamente in danese.

Il rapporto con la Danimarca è cruciale per capire come andrà a finire il processo d’indipendenza. Nessun partito groenlandese, nemmeno il più populista Naleraq che potrebbe essere la sorpresa delle elezioni, propone un referendum unilaterale. L’idea è seguire l’iter previsto dalla legge del 2009 che ne aveva previsto la possibilità. Concretamente si tratta di attivare i negoziati col governo danese per arrivare a un accordo, da sottoporre poi a un referendum. Su quando avviarli, i partiti litigano: quelli del governo uscente – Comunità Inuit e il socialdemocratico Siumut (Avanti) – ci vanno cauti, Naleraq vorrebbe farlo immediatamente.

Nuuk, il 6 marzo (il Post)

Tutti però, almeno in questo momento storico, immaginano di restare come nazione con piena sovranità nel Regno di Danimarca (di cui fanno parte anche le isole Fær Øer), e quindi di mantenere una collaborazione di qualche tipo con la Danimarca e con l’Unione Europea. In Danimarca, tra l’altro, vivono oltre 18mila persone groenlandesi: sono tante, considerando che sull’isola sono meno di 40mila.

Ogni anno il governo danese versa alla Groenlandia 580 milioni di euro, che corrispondono a circa metà delle entrate di bilancio. Il governo locale non sa come sostituirli, e anche per questo è così prudente sui tempi dell’indipendenza. L’economia si basa sulla pesca (più del 90 per cento delle esportazioni), ma è difficile rendere l’industria più redditizia di quanto già sia. Altre ipotesi sono potenziare il settore turistico o consentire l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti di uranio e metalli rari, che sono la ragione per cui l’isola è così ambita.

Un cartello in due lingue a Nuuk: sopra in Kalaallisut (il groenlandese standard occidentale, ci sono anche un dialetto orientale e uno settentrionale) e sotto in danese (il Post)

Oltre all’economia, c’è una questione culturale. La politica groenlandese chiede un maggiore impegno ai governi danesi, che per decenni si sono disinteressati dell’isola. Di recente ci sono state concessioni: massicci investimenti militari (per rispondere ai timori per la sicurezza strumentalizzati da Trump) e in generale un’attenzione maggiore alle istanze dell’ex colonia. Per esempio la Danimarca ha introdotto la traduzione simultanea per consentire l’utilizzo della lingua groenlandese in parlamento a Copenaghen, e ha abrogato un contestato sistema di test per neogenitori che discriminava quelli groenlandesi e di altre minoranze.

Aaja Chemnitz è una delle due deputate groenlandesi al parlamento danese, dov’è presidente della commissione sulla Groenlandia. Aggiunge un aneddoto significativo: «A inizio gennaio ero invitata a una cena con tutti i deputati: avrei dovuto sedermi al trentunesimo tavolo, ma dopo le dichiarazioni di Trump mi hanno promosso al primo, lo stesso della prima ministra» Mette Frederiksen, racconta Chemnitz, che da allora ha contatti regolari con lei.

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