Non è più la mafia di una volta
Anni di arresti e sequestri l'hanno indebolita, come dimostra anche la recente operazione della procura antimafia di Palermo

In una delle conversazioni telefoniche che hanno portato i carabinieri di Palermo ad arrestare 181 persone accusate di mafia si sente Giancarlo Romano, capomafia del quartiere Brancaccio ucciso un anno fa a 37 anni, ammettere che ormai il livello dei mafiosi è basso. «Oggi arrestano a uno e si fa pentito; arrestano un altro… livello misero, basso, ma di cosa stiamo parlando?», dice. Non è un caso che i carabinieri abbiano diffuso proprio quella conversazione tra le migliaia intercettate negli ultimi anni. L’obiettivo degli investigatori era mostrare che il lavoro fatto dalla procura antimafia ha sfiancato Cosa nostra, la mafia siciliana, che ormai è in declino.
Già prima degli arresti di martedì la mafia siciliana non era mai stata così debole. Negli ultimi 20 anni anni le forze dell’ordine hanno arrestato oltre cinquemila persone accusate di far parte a vari livelli dell’organizzazione, hanno sequestrato tonnellate di droghe illegali e smantellato traffici e sistemi estorsivi. Non significa che la mafia sia scomparsa o che sia innocua, anzi gli arresti dimostrano che i tentativi di ricostruzione di Cosa nostra sono continui, ma l’odierna struttura organizzativa non ha nulla a che vedere con quella del dominio dei corleonesi di Totò Riina. Sono cambiati gli affari e le prospettive.
Le indagini hanno confermato che non esiste più una struttura verticistica – conosciuta come Cupola – con un capo che comanda su tutte le cosche dell’isola. Fino all’inizio del 1993 le commissioni di mafia, le Cupole, erano più d’una. Ogni commissione provinciale rappresentava diverse cosche, il nome con cui vengono chiamati i gruppi organizzati di mafiosi delle varie province. La commissione della provincia di Palermo era la più importante: ne facevano parte i capimandamento di tutte le famiglie. I capimandamento sono i rappresentanti eletti di tre famiglie attive su zone confinanti tra loro che costituiscono, appunto, il mandamento.
Di fatto tutte le commissioni si riunivano per ratificare decisioni già prese dai corleonesi che, con la guerra di mafia dei primi anni Ottanta, avevano eliminato le cosche rivali. Totò Riina e i corleonesi dominavano la commissione provinciale di Palermo e avevano imposto a capo delle altre commissioni provinciali rappresentanti a loro fedeli. Dopo l’arresto di Riina quella struttura gerarchica non è più esistita o se è esistita, comunque, non si è più riunita nemmeno durante la latitanza di Matteo Messina Denaro, considerato l’ultimo vero boss della mafia siciliana.
Da allora Cosa nostra è stata costretta a ridimensionare la propria influenza in molti settori, tra cui i traffici di sostanze illegali. Soprattutto tra gli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta Cosa nostra era stata al centro del traffico internazionale: le dosi venivano preparate in decine di laboratori clandestini sparsi per la Sicilia e spedite in molti paesi, soprattutto negli Stati Uniti, dove la mafia controllava circa il 30 per cento dello spaccio. La crescita della ’ndrangheta ha portato Cosa nostra a cedere il passo.
La gestione dello spaccio in Sicilia, un tempo considerato un affare secondario, quasi un impiccio, ora è diventata centrale. Gino Mineo, 73 anni, storico esponente del clan di Bagheria, arrestato lunedì, diceva al telefono di non disdegnare i guadagni ottenuti dallo spaccio pur prendendo però le distanze da quel tipo di affari. «Stai attento ah, perché oggi, domani, io vedi per ’ste cose non mi ci sono mischiato mai, non ci sono entrato mai, non è che mi voglio andare ad infangare poi con un po’ di fanghi», diceva al telefono. «Tu gli dici: “lascia qualche cosa per il paese, per i cristiani”, gli dici che hanno di bisogno».
Sempre Romano mostrava una certa frustrazione nel confrontare gli affari odierni con i fasti mafiosi del passato. «Ma tu devi campare con la panetta di fumo, cioè così siamo ridotti? Le persone di una volta, quelli che disgraziatamente sono andati a finire in carcere per tutta la vita, ma che parlavano della panetta di fumo? Cioè se ti dovevano fare un discorso di fumo, te lo facevano perché doveva arrivare una nave piena di fumo. Se tu parli con quelli che fanno business, ti ridono in faccia. Ma questo business è? Siamo troppo bassi, siamo a terra ragazzi. Noi pensiamo che facciamo il business, oggi sono altri. Dico, eravamo prima noi, oggi lo fanno altri: noi siamo gli zingari».
Il nuovo ruolo un po’ dimesso si riflette anche nella gestione del pizzo. I commercianti che pagano il pizzo sono sempre di meno e per questo la mafia è stata costretta ad adeguare le pretese e il controllo. Tra gli arrestati di lunedì c’è anche Alfonso Di Cara, definito dalla procura «pioniere di un metodo esattivo apparentemente benevolo e conciliante volto ad aggirare, ove possibile, il cliché delle intimidazioni eclatanti, generatrici di malcontento e di indagini». Già all’inizio degli anni Dieci si era diffuso il metodo del pizzo chiesto a rate, una modalità impensabile negli anni Novanta.
L’errore che ha permesso agli investigatori di risalire ai nomi dei nuovi affiliati è un altro sintomo dell’approssimazione con cui oggi vengono gestite le comunicazioni interne, da sempre un punto di forza della mafia. Nonostante i clan si fossero dotati di un sistema tecnologico criptato piuttosto avanzato, alla fine la rete di comunicazione è stata scoperta perché due mafiosi – Mimmo Lapadula e Ivan Boracchia – si sono messi a copiare tutti i contatti leggendoli ad alta voce. In questo modo gli investigatori che li stavano intercettando su un altro smartphone sono riusciti a individuare tutti gli affiliati: un livello di attenzione molto diverso dai cosiddetti “pizzini”, cioè biglietti di carta, usati per comunicare da Bernardo Provenzano.