Dovremmo rivolgerci agli altri in modo più formale?

L’attitudine a darsi del tu e chiamarsi per nome più spesso che in passato non implica che sia sempre appropriato e inoffensivo farlo

Un gruppo di persone a corte con abiti sfarzosi dai colori vivaci
Un ballo alla corte di Enrico III di Francia, in un dipinto anonimo nella collezione del Louvre (Fine Art Images/Heritage Images/Getty Images)
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Cortesia e rispetto sono qualità umane che si manifestano nei rapporti interpersonali in molti modi diversi. Uno tra i tanti è l’uso di espressioni e formule linguistiche convenzionali che denotano cordialità nelle interazioni, a cominciare dal modo di rivolgersi al proprio interlocutore o alla propria interlocutrice. Dare del tu e chiamarsi per nome, a seconda del contesto, della relazione esistente tra i parlanti, e di molti altri fattori variabili, possono essere un modo per esprimere empatia oppure un modo di interloquire inappropriato e irrispettoso.

In una puntata del suo podcast Amare Parole, prodotto dal Post, la sociolinguista Vera Gheno raccontò nel 2024 un aneddoto su sua madre, ungherese, che vive in Italia da oltre 50 anni e parla italiano fluentemente, anche perché lo ha studiato per lavoro per diversi anni. Disse che a sua madre capita spesso di incontrare agli sportelli degli uffici pubblici impiegati e impiegate che tendono a darle automaticamente del tu, appena leggono e riconoscono come non italiani il nome e il cognome sui suoi documenti. Soltanto dopo che lei risponde in ottimo italiano dando del lei alla persona allo sportello, ottiene un lei di risposta: lo stesso che quelle persone utilizzano abitualmente con persone di mezza età o più grandi, con nomi e cognomi più comuni.

Dare del tu a una persona che presumiamo essere migrante o straniera è una scelta probabilmente motivata dalla convinzione che quella persona non comprenda bene l’italiano. E in interazioni di quel tipo la conversazione può in effetti essere più semplice se si utilizza l’allocutivo tu anziché il lei (sono detti “allocutivi”, in linguistica, i pronomi personali usati per rivolgersi a uno o più interlocutori o interlocutrici). Ci sono però situazioni in cui rendere le conversazioni informali è una scelta non reciproca motivata da un pregiudizio, come nell’aneddoto citato da Gheno, e rischia di suonare irrispettoso e di generare attriti evitabili.

– Ascolta anche: “Amare Parole” – Tu, voi, lei e la cortesia nelle interazioni

Anche chiamarsi per nome presenta rischi simili, non soltanto nel parlato ma anche nello scritto. Alcuni giornali, con toni paternalisti e infantilizzanti, utilizzano di frequente nei titoli il nome anziché il cognome delle persone giovani benché maggiorenni. Capita spesso con le giovani donne vittime di femminicidio, per suggerire una condizione di vulnerabilità e fragilità, ma anche con giovani uomini, alludendo alla loro inesperienza. Nel giornalismo sportivo il nome proprio è usato spesso anche in titoli enfatici o per sottintendere la familiarità di chi scrive con la persona di cui scrive.

Anche i politici si rivolgono spesso in pubblico a un loro interlocutore o a una loro interlocutrice, presente o assente, utilizzando il nome o il cognome a seconda delle circostanze e delle intenzioni retoriche. E questo capita indipendentemente dall’eventuale familiarità tra i due, o dalla rispettiva appartenenza politica. Lo stesso vale per l’uso del tu o del lei. Una volta, secondo un vecchio aneddoto citato tra gli altri dall’italianista Rosario Coluccia, a un iscritto al partito che parlava con supponenza di cose che non conosceva lo storico leader del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti rispose: «Caro compagno, dammi pure del lei».

A parte gli allocutivi, ci sono altri modi di esprimere cortesia in italiano neostandard, definizione proposta nel 1987 dal sociolinguista Gaetano Berruto per una varietà di italiano informale parlata dalla maggior parte della popolazione e diversa da quella imparata a scuola. Uno dei tanti modi, per esempio, è il cosiddetto imperfetto attenuativo (o di cortesia, appunto), usato per attenuare richieste che all’indicativo suonerebbero impositive («Buongiorno, volevo un’informazione su…»), o anche per smorzare l’urgenza di una comunicazione («Volevo dirvi che…»).

Rispettare pienamente il linguaggio della cortesia, scrive Coluccia, richiede però anche la capacità di variare tra il tu e il lei in un modo appropriato alle diverse situazioni comunicative.

In generale, negli ultimi decenni, l’uso di formule un tempo riservate soltanto ai rapporti informali – di parentela, di amicizia, di lavoro – si è esteso a situazioni in cui in passato non era ammesso. L’uso del tu reciproco è da tempo diffuso tra persone sconosciute: per esempio tra i clienti e il personale addetto alle vendite nei negozi, se non c’è troppa differenza di età. Ed è usato nei primi anni di scuola tra insegnanti e studenti, prima del passaggio – delicato e spesso difficile – al tu non reciproco nella scuola media, e poi al lei reciproco all’università. Non c’è però uniformità tra aree geografiche diverse, dice Piera Molinelli, docente di Linguistica pragmatica e dell’interazione all’Università di Bergamo e autrice della voce sui pronomi allocutivi nell’Enciclopedia dell’Italiano edita da Treccani.

Nel Nord del paese molti docenti e ricercatori usano il tu reciproco, mentre al Sud e nelle isole c’è ancora un’attenzione maggiore ai ruoli accademici, e di conseguenza più formalità: «difficile che un dottorando usi il tu con il docente supervisore», dice Molinelli. Ma la variabilità dipende anche da altri fattori, non solo geografici. Gheno disse che dà sempre del lei alle sue e ai suoi studenti all’università, e tendenzialmente del tu quando incontra studenti nelle scuole superiori, chiedendo che sia reciproco, dal momento che in quel caso non è lì in qualità di docente.

In termini generali la maggiore diffusione del linguaggio informale deriva in parte da una tendenza correlata ad avere interazioni più dirette e non condizionate da rapporti gerarchici: tendenza a sua volta legata a cambiamenti radicali degli ultimi tre decenni, sociali ma soprattutto tecnologici. Internet, gli smartphone, gli assistenti vocali e altri progressi hanno reso la comunicazione più “orizzontale” e accessibile di quanto lo fosse prima. E hanno trasformato il linguaggio che usiamo tutti i giorni, su larga scala e in modo trasversale, anche in paesi con storie, culture e convenzioni molto diverse tra loro.

– Leggi anche: La prospettiva di un mondo in cui non si studiano più le lingue straniere

Anche l’inglese, secondo diverse ricerche, è diventato più informale che in passato: online, ma anche nella narrativa, sui giornali, nei discorsi politici e in ambito accademico. Rispetto a vent’anni fa, per esempio, la frequenza di utilizzo di Mr e Mrs è diminuita del 30 e del 56 per cento. Ha senso saperlo, perché nelle interazioni in inglese è questo e non il pronome (sempre you) uno dei modi di esprimere formalità (Nice to see you, Mr. Costa non è la stessa cosa di Nice to see you, Francesco).

Anche per effetto dell’influenza dell’inglese, il tu e i verbi alla seconda persona singolare sono da sempre le forme dominanti dell’italiano su Internet e nei contesti digitali. Nelle caselle di testo sui siti, inclusi quelli istituzionali, c’è scritto «cerca», per esempio, o «compila qui». Diverse banche nelle loro comunicazioni online o via SMS usano la seconda persona singolare («inserisci il codice…»), a volte combinando l’allocutivo informale con altre forme di cortesia («Gentile cliente, inserisci il codice…»).

Tra le generazioni più giovani, che di solito sono anche le prime a fruire delle nuove tecnologie, il tu reciproco è probabilmente percepito come un segno di empatia e vicinanza: «un atteggiamento linguistico positivo», dice Molinelli. Una tendenza a usarlo con eccessiva disinvoltura, a non alternarlo con il lei in modo appropriato e a trascurare modalità più formali di relazione potrebbe tuttavia aumentare il rischio di non rispettare la sensibilità e l’individualità dei parlanti. Potrebbe, secondo Coluccia, far passare inosservata una propensione a non rispettare «l’insieme di norme e convenzioni verbali adottate da una comunità per contenere la conflittualità e favorire l’armonia nell’interazione».

Qualche riflessione sui rischi di un uso indiscriminato del linguaggio informale è emersa anche nei paesi anglofoni, dove l’uso di parole rispettose della sensibilità delle persone alimenta da anni un esteso dibattito, con caratteristiche specifiche di quel contesto linguistico. In un articolo sulla rivista Psyche, per esempio, il filosofo sudafricano David Benatar si è chiesto se trascurare le preferenze individuali tra formalità e informalità, dando per scontato che chiunque preferisca la seconda, non sia un atteggiamento in contrasto con la propensione a rispettare per esempio le preferenze delle persone nella scelta di pronomi appropriati alla loro identità di genere.

La ragione migliore per soddisfare le aspettative dell’interlocutore, secondo Benatar, è che «è semplicemente meglio, a parità di condizioni, riferirsi alle persone o rivolgersi a loro in base alle loro preferenze». Ovviamente le preferenze non hanno tutte lo stesso valore. «Se il pronome preferito di una mia studentessa fosse “Sua Altezza Reale”, non sarei in alcun modo obbligato a rivolgermi a lei in quel modo», a meno che non fosse effettivamente una principessa in qualche famiglia reale, ha scritto Benatar.

Secondo lui la non reciprocità di certe forme di cortesia non è una cosa sbagliata in sé: non lo è, per esempio, quando serve a riflettere differenze di ruolo reali, come tra giovani studenti e insegnanti. È sbagliato semmai quando quelle differenze di potere nella società sono distribuite sulla base di criteri inaccettabili. Sarebbe inaccettabile, per esempio, una convenzione che imponesse alle donne di rivolgersi agli uomini con rispetto, e agli uomini di chiamare le donne per nome. «Ma le convenzioni che distinguono tra bambini e adulti, o tra studenti e insegnanti, non sono di questo tipo», e finché esistono e sono considerate significative ha senso rispettarle.

– Leggi anche: La paura di chiamare le persone con il loro nome

In italiano, tralasciando i casi in cui la preferenza per i pronomi di cortesia è espressa minacciosamente per reclamare deferenza e spesso per cambiare argomento («lei non sa chi sono io!»), è comunque consigliabile non abusare del tu in situazioni formali. «Familiarità, informalità e confidenza non caratterizzano tutte le relazioni sociali, e nemmeno hanno sempre funzione inclusiva», dice Molinelli. Il lei serve anche a rispettare le diverse sensibilità e proteggere le individualità delle persone, specialmente quelle che non conosciamo, perché «a volte consente di avvicinarsi piano piano all’interlocutore e capire quale livello di formalità la persona gradisce».

Molinelli cita un esempio che le è capitato pochi giorni fa, in una grande stazione ferroviaria a Milano. Un signore guardava spaesato il tabellone degli orari sul suo stesso binario. Dopo aver notato che aveva forse bisogno di aiuto, e aver registrato mentalmente altre informazioni (era una persona nera, «vestita in modo sobrio e pulito»), nel proporre aiuto Molinelli si è chiesta se usare il tu o il lei, nel dubbio che lui potesse non capire l’italiano. Per evitare di sembrare discriminatoria gli ha quindi chiesto: «Posso aiutarla? May I help you?».

Il signore le ha quindi risposto, con un gran sorriso e con dizione in perfetto italiano: «Grazie, signora, sa dirmi se questo treno per Parma ferma anche a Fiorenzuola?». E ha poi aggiunto: «Grazie per non avermi parlato come se fossi un vucumprà». «Insomma, ho solo sbagliato aggiungendo l’inglese, che non serviva, ma il mio “lei” lo ha fatto sentire rispettato. Il linguaggio inclusivo può anche essere questo», dice Molinelli.