Il sequestro di Giuliana Sgrena, 20 anni fa
E l'uccisione un mese dopo dell'agente dei servizi segreti Nicola Calipari, che era andato in Iraq per riportarla in Italia

La mattina del 4 febbraio di vent’anni fa, nel 2005, l’inviata del Manifesto Giuliana Sgrena fu rapita da un gruppo jihadista iracheno a Baghdad, in Iraq. Sgrena era lì per realizzare una serie di reportage per il suo giornale, a meno di due anni dall’inizio dell’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti. La storia del suo sequestro è strettamente legata a quella di un altro italiano, Nicola Calipari, un agente del SISMI, cioè dei servizi segreti militari italiani (dal 2007 il SISMI è stato sostituito dall’AISE, Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), che morì mentre stava scortando la giornalista italiana all’aeroporto di Baghdad per riportarla in Italia, un mese dopo.
Su quanto accaduto le ricostruzioni di Italia e Stati Uniti arrivarono a conclusioni diverse. Si sa chi sparò il colpo che uccise Calipari, ovvero il militare statunitense di origini italiane Mario Lozano, ma il processo a suo carico fu subito interrotto. È una storia lunga e complessa, su cui nel tempo si sono accumulati sospetti tuttora irrisolti. La stessa Sgrena due anni fa in un’occasione pubblica disse che era uno dei «grandi misteri italiani, ma è quello di cui si parla meno».
Il 4 febbraio del 2005 la redazione del Manifesto stava provando a mettersi in contatto con Sgrena, come faceva ogni giorno. «Il suo telefono satellitare era muto», scrive oggi Andrea Fabozzi nella premessa di un articolo che propone un dialogo tra Sgrena e Carlo Parolisi, che vent’anni fa era dirigente operativo e vice di Calipari al SISMI, e ora è in congedo. La notizia del suo sequestro arrivò alla redazione in quelle ore concitate. Nei giorni successivi il giornale iniziò a documentare il lavoro di Sgrena, che era pacifista e che fin dall’inizio aveva preso posizione contro la guerra in Iraq. L’allora direttore del quotidiano, Gabriele Polo, fece un appello per la liberazione.

Una conferenza stampa dei genitori di Giuliana Sgrena: da sinistra Pier Scolari (compagno di Sgrena) e Franco e Antonietta Sgrena, 23 febbraio 2005 (Roberto Monaldo/ LaPresse)
Il 10 febbraio i rapitori diffusero un comunicato dando un nuovo ultimatum al governo italiano: 48 ore di tempo per annunciare il ritiro delle forze armate italiane dall’Iraq. Per sollecitare il governo e chiedere la liberazione di Sgrena si tenne a Roma nei giorni seguenti una manifestazione a cui parteciparono oltre 500mila persone. Il 15 febbraio anche Franco Sgrena, il padre di Giuliana, diffuse un appello per chiedere notizie della figlia. Il giorno dopo la televisione saudita Al Arabiya trasmise un video che mostrava Giuliana Sgrena rivolgersi in italiano e in francese al suo compagno e agli italiani: «Aiutatemi, aiutatemi, la mia vita dipende da voi, fate pressione sul governo italiano perché ritiri le truppe».
Il 23 febbraio l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi chiese la liberazione di Giuliana Sgrena. La sua liberazione fu annunciata da Al Jazeera, e anche Sgrena venne a sapere che sarebbe stata liberata in giornata dai suoi rapitori.

Una foto di Nicola Calipari diffusa nel 2005 (LaPresse)
L’uomo incaricato di portare in salvo la giornalista era Nicola Calipari. Era nato a Reggio Calabria il 23 giugno del 1953: nel 1979 si era arruolato nella polizia, dove aveva lavorato come funzionario per oltre vent’anni per poi entrare nel SISMI nel 2002. Nel SISMI Calipari si occupò direttamente di diverse trattative di ostaggi italiani in Iraq, tra cui quella di Sgrena (a tutta questa vicenda è dedicato anche un film, Il Nibbio, che uscirà al cinema il 6 marzo). Fu lui ad andare a Baghdad per recuperare la giornalista e riportarla in Italia.
Dopo lo scambio, Sgrena e Calipari salirono su una Toyota Corolla, guidata da un altro agente, Andrea Carpani, che li avrebbe dovuti portare all’aeroporto di Baghdad, controllato dalle truppe statunitensi. Per arrivarci dovevano percorrere una strada chiamata Route Irish, considerata tra le più pericolose di Baghdad. A circa 700 metri dall’arrivo, lungo una strada dove si trovava un posto di blocco statunitense, una raffica di mitragliatrice colpì l’auto. Nicola Calipari, secondo il racconto di Sgrena, si buttò su di lei per proteggerla. Fu colpito alla testa e morì sul colpo. A sparare, si scoprì più tardi, era stato Mario Lozano, addetto alla mitragliatrice al posto di blocco.
Giuliana Sgrena ha sostenuto di aver visto una luce dopo una curva, che l’auto avesse rallentato e che subito fossero partiti gli spari. La giornalista ha sempre detto che non era un posto di blocco e che la pattuglia dei soldati statunitensi non aveva fatto alcun segno per far fermare l’auto. Sgrena ha anche scritto nel suo resoconto che i suoi sequestratori, poco prima della liberazione, le avevano detto che gli americani non volevano che tornasse viva a casa. Anche Carpani disse che stava andando piano, e contestò diversi punti della ricostruzione fornita dagli Stati Uniti. Disse, tra le altre cose, che il faro che segnalava il posto di blocco si accese in contemporanea agli spari e che non ci furono raffiche di avvertimento prima di quelle che colpirono la macchina e uccisero Calipari.

Il funerale di Stato per Nicola Calipari nella basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma, 7 marzo 2005 (Marco Merlini/LaPresse)
In un articolo uscito a settembre sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi definisce «fin troppo semplice» la versione statunitense di quel giorno. Secondo gli Stati Uniti, la macchina priva di segnali di riconoscimento procedeva a velocità sostenuta e non rallentò dopo l’accensione del faro, Lozano intimò un «alt» che non fu rispettato e sparò colpi di avvertimento prima di colpire la macchina. Nessuno, scrissero inoltre gli Stati Uniti in un rapporto pubblicato qualche mese dopo l’accaduto, era a conoscenza dell’operazione condotta dal SISMI né dell’identità delle persone a bordo di quell’auto. Il rapporto statunitense concludeva dicendo che quello che era successo era stato «un tragico incidente». Il rapporto era stato inizialmente pubblicato online con nomi e informazioni sensibili oscurate, ma il blogger Gianluca Neri su Macchianera aveva però scoperto che gli omissis potevano essere tecnicamente aggirabili e aveva pubblicato il rapporto completo.
Gli sviluppi di questa vicenda si fecero molto complicati, tra ipotesi di riscatto, teorie del complotto, retroscena, scontri diplomatici, video, polemiche e documenti riservati pubblicati da Wikileaks. Tra i vari punti ancora poco chiari di questa storia, Bianconi scrive per esempio che non è mai stato spiegato perché il posto di blocco fosse ancora attivo al momento del passaggio della Toyota con i tre italiani a bordo. Quel posto di blocco era stato installato per sorvegliare il percorso dell’ambasciatore statunitense, John Negroponte, che doveva andare a cenare in aeroporto. Parolisi sul Manifesto racconta che inizialmente Negroponte avrebbe dovuto muoversi in elicottero ma siccome c’era stato un forte temporale era stato allestito un percorso alternativo via terra. Negroponte si spostò però comunque in elicottero ma nessuno avvisò le pattuglie americane di rientrare, dice Parolisi, nonostante fosse stato dato l’ordine di smobilitare.

Una manifestazione per la liberazione di Giuliana Sgrena organizzata a Roma il 19 febbraio del 2005 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Sempre Bianconi racconta che Calipari dovette aspettare nel posto concordato per l’appuntamento con i rapitori di Sgrena circa mezz’ora in più rispetto alle indicazioni ricevute in precedenza. Quando lui e Carpani salirono sul furgoncino che li avrebbe portati da Sgrena, Carpani notò un uomo che stava telefonando: avvisò il suo capo ma ormai non c’era più modo di cambiare il piano. Nessuno scoprì mai chi fosse quell’uomo, ma è uno degli episodi che contribuirono ad alimentare i sospetti verso presunti tentativi di innescare il “fuoco amico” degli americani contro gli italiani.
Sul Manifesto Parolisi racconta invece che la sera del 3 marzo del 2005 un collega di Baghdad era preoccupato di «come avrebbero potuto comportarsi gli americani». «Il contingente Usa di stanza a Baghdad era cambiato da poco e aveva già dato segno di eccessivo nervosismo, ricorrendo all’uso delle armi anche quando non era necessario», dice.
Dopo l’uccisione di Calipari, negli Stati Uniti fu istituita una commissione d’inchiesta a cui vennero ammessi, ma solo come osservatori, anche degli italiani. La magistratura in Italia dovette far fronte a diverse difficoltà nelle indagini: la zona dove si erano svolti i fatti era infatti sottoposta al controllo statunitense e gli Stati Uniti negarono per esempio il permesso di far analizzare ai tecnici della polizia scientifica italiana il veicolo su cui viaggiavano Sgrena e Calipari. L’Italia dovette così basarsi esclusivamente sui rilievi compiuti dalle autorità statunitensi.
Nel giugno del 2006 la procura di Roma formalizzò la richiesta di rinvio a giudizio per Mario Lozano, con l’accusa di avere commesso un «delitto politico che lede le istituzioni dello stato italiano». La procura di Roma presentò anche richiesta per una rogatoria internazionale, cioè una sorta di collaborazione giudiziaria, respinta dagli Stati Uniti. Il governo italiano di allora, che era guidato da Romano Prodi, si era costituito parte civile. Un anno dopo però la Corte d’Assise di Roma prosciolse Lozano per un difetto di giurisdizione: la procura di Roma impugnò la sentenza, ma nel giugno del 2008 la Corte di Cassazione riconobbe la cosiddetta “immunità funzionale” a Lozano: agiva nell’esercizio delle proprie funzioni e dunque non poteva essere processato in Italia, ma solo negli Stati Uniti.
In un editoriale uscito oggi, 4 febbraio del 2025, sul Manifesto per il ventennale del suo rapimento, Sgrena risponde alle critiche di chi ancora oggi l’accusa di essersela andata a cercare, spiegando il senso di fare l’inviata di guerra. Sono argomentazioni simili a quelle che aveva ribadito anche a fine dicembre per difendere Cecilia Sala, la giornalista italiana incarcerata per 21 giorni nella prigione di Evin, in Iran, e liberata lo scorso 8 gennaio. Nella conclusione del suo editoriale, Sgrena scrive: «A chi per vent’anni mi ha accusato di essere un’assassina rispondo che a sparare a Nicola Calipari sono stati gli americani, non io. Ma non posso dimenticare la sensazione di qualcuno che ti muore addosso. È stata la persona che mi ha salvata due volte, dai rapitori e dagli americani, a morire. E io vivo da sopravvissuta. Non ho mai potuto gioire per la mia liberazione, il 4 marzo è l’anniversario della morte di Nicola Calipari».