I videogiochi barano
«Capire se gli sviluppatori mi mentivano è stata la reazione a una frustrazione sedimentata fin dall’infanzia. Il momento in cui ho avuto per la prima volta la netta impressione di essere preso in giro risale a “Street Fighter II”. Oggi so che nei videogiochi il computer è sia l’avversario che il banco che tiene le carte. E l’obiettivo di un buon game design è darti le carte giuste per farti vincere, ma non troppo, oppure spremere ogni soldo che hai in tasca. Barando»

L’anno è il 1993 o poco dopo. Le sale giochi in tutto il mondo sono in una fase calante perché il mondo dei videogiochi sta cambiando. Le console casalinghe offrono titoli divertenti che non ti obbligano a uscire di casa e a infilare monetine su monetine in macchine dove girano giochi pensati fondamentalmente per farti spendere di più. Anche i computer casalinghi da qualche anno offrono avventure che un cabinato da bar non può certo ospitare.
Quei cassoni colorati con un tubo catodico sono infatti macchine progettate per fruttare un certo numero di gettoni all’ora. Questo vuol dire che se i giochi diventano troppo facili o troppo prevedibili, se i giocatori abituali iniziano a finirli con un solo gettone o si annoiano, allora via, si cambia, senza troppi rancori. Il problema è che negli ultimi tempi fruttano sempre meno.
Poi un giorno, all’improvviso, nelle sale giochi arriva Street Fighter II che, come un defibrillatore, dona nuova energia a un mondo che sembrava agonizzante. La transizione sarà inevitabile, questo è palese, ma le sale giochi non sono finite. Il gioco è bellissimo e, come molti altri di quegli anni, farà scuola e getterà le fondamenta del proprio genere di riferimento negli anni a venire. I personaggi sono grandi e dettagliati, le mosse spettacolari, gli sfondi bellissimi, la musica un classico istantaneo.
Come molti miei coetanei mi innamorai in maniera viscerale. Street Fighter II era al confine tra la precisione di uno sport reale e il fascino dell’ignoto, con un certo esotismo che oggi probabilmente verrebbe evitato. Ogni personaggio portava con sé modi di dire, tic e abiti che ti facevano venire voglia di conoscerlo meglio. In sala giochi generava un’atmosfera da Fight Club grazie a cui i migliori giocatori erano in grado di incutere timore e reverenza semplicemente avvicinandosi al cabinato. E se di altri giocatori non ce n’erano, potevi sfidare il computer per imparare meglio le mosse.
Negli anni seguenti Street Fighter II diventerà un classico, farà divertire milioni di persone, qualcuno diventerà così bravo da guadagnarci tanti soldi, ma rimane anche un ottimo esempio del fatto che già allora avevamo ragione a sospettare: i videogiochi barano.
Senza scendere troppo nel tecnico, qualche anno fa è stato dimostrato che i personaggi di Street Fighter controllati dal computer potevano fare cose impossibili per un essere umano: recuperare in poco tempo dallo stordimento o eseguire mosse e combinazioni con tempi sovrumani. La ragione può sembrare banale – un computer non deve premere tasti, non si distrae e ha riflessi pressoché istantanei – ma in alcuni casi questa disparità può fare tutta la differenza del mondo.
Chi è abituato ai videogiochi dà per scontato che se vede qualcosa può riprodurla, soprattutto nei giochi di combattimento in cui non è importante soltanto conoscere ogni mossa, ma anche memorizzare i singoli frame di animazione. Provarci e riprovarci senza riuscirci può essere estremamente frustrante. Scoprire dopo anni che no, non eri tu a non sapere usare al meglio quel personaggio, era il computer ad avere un vantaggio, ha un non so che di liberatorio. Per questo sotto il video che ha dimostrato l’inganno c’era gente che chiedeva indietro anni e anni di monetine, ma anche gente tutto sommato felice perché dopo anni di fallimento poteva mettersi l’anima in pace.
Quanto a me, l’anima in pace me l’ero già messa da tempo perché parlando con sviluppatori e game designer avevo iniziato a vedere i fili dietro i burattini senza amarli di meno, ma apprezzando di più il lavoro dei burattinai. In fondo è quella cosa che in narratologia si chiama “sospensione dell’incredulità”, la disponibilità a credere a una storia, anche a quella cui si gioca.
Che il cinema sia un trucco lo sappiamo: quella casa non è veramente una casa, ma una facciata tenuta in piedi con delle assi, e due persone non possono picchiarsi per così tanto tempo senza svenire, una pistola di sicuro non contiene tutte quelle pallottole. Al cinema non chiediamo di raccontarci la verità, ma una finzione a cui è facile credere. E lo stesso accade con la letteratura: tutti sappiamo che perfino Guerra e pace di Tolstoj, per quanto precise siano le descrizioni dei consigli di guerra che racconta, resta una finizione letteraria a cui decidiamo di credere. D’altronde, ci sarà un motivo se lo chiamiamo “patto narrativo”, è un accordo non scritto in cui io prendo tutto per vero, a patto che tu faccia finta di mostrarmelo.
Questo patto è anche alla base dei videogiochi, che però hanno bisogno dell’interazione dei giocatori. Per questo, nel caso dei videogiochi, il patto è sbilanciato, per non dire un imbroglio: a volte assomiglia a quando i genitori lasciano vincere i figli o fingono di farli cadere anche se li tengono saldamente tra le mani. Quando sto giocando entro in un mondo fittizio che simula il reale, ma non può farlo troppo perché la realtà vera sarebbe troppo brutale o noiosa per essere anche divertente: quasi nessuno si divertirebbe a spararsi addosso in un gioco iperrealistico in cui si muore al primo colpo o magari si finisce a dissanguarsi in una buca.
L’esperienza dei videogiochi deve essere vera ma non verosimile, anche per questo a volte si ha la sensazione di misurarsi contro un baro. A ogni “Game Over”, a ogni gol preso senza senso dal peggior brocco dopo aver dominato ogni contrasto, a ogni auto nemica che stranamente mi recupera quando sto dominando una gara, a ogni parata perfetta del mio avversario, il pensiero che il computer stia barando non ti lascia mai. Nei videogiochi il computer è sia l’avversario che il banco che tiene le carte. E l’obiettivo di un buon game design è darti le carte giuste per farti vincere, ma non troppo, oppure spremere ogni soldo che hai in tasca. Barando.
Capire se i videogiochi mi mentivano è stata una delle motivazioni inconsce per cui ho deciso di iniziare a studiarli e a raccontarli, la reazione a una frustrazione probabilmente sedimentata fin dall’infanzia. Di sicuro il momento in cui ho avuto per la prima volta la netta impressione di essere preso in giro risale a quelle ore spese a giocare a Street Fighter II con Ken, Ryu e compagnia picchiante.
Il problema è che dietro i videogiochi non ci sono solo gli inganni frustranti, ma anche un sacco di trucchi pensati per farci sentire più bravi, più veloci, più esperti, più capaci. Sono coccole sparse per il nostro ego, progettate per farci emozionare senza farci frustrare. Internet è piena di sviluppatori che raccontano questi piccoli trucchi per tenere in piedi la nostra fantasia di potenza.
Pensate alla classica barra di energia del protagonista di un videogioco: lo sapete che in alcuni casi non misura realmente la vita rimasta perché spesso gli ultimi centimetri misurano molti più punti ferita, così da farci credere di averla spuntata per un soffio? Vi hanno mai detto che a volte gli ultimi colpi di un caricatore fanno più male per farci credere di essere eroi che se la cavano all’ultimo? E ancora, se quando siete circondati dai nemici quelli alle vostre spalle reagiscono più lentamente è per farvi credere di poter gestire contemporaneamente più avversari.
Il più famoso di questi inganni a fin di bene, forse, è il cosiddetto “Coyote Time”. Avete presente nei cartoni animati Warner quando Willy il Coyote cammina per qualche passo nel vuoto prima di accorgersene e cadere in un crepaccio? In Super Mario e in altri giochi platform, che sono quelli in cui bisogna attraversare più piattaforme, succede più o meno la stessa cosa. In pratica è come se il bordo effettivo di una sporgenza o di una piattaforma fosse di qualche millimetro più lungo rispetto a ciò che vediamo, o come se il gioco registrasse il comando “salta” anche se in teoria dovremmo cadere perché poggiamo nel vuoto, permettendoci quindi andare avanti.
Sono trucchi di teatro, che però possono fare crollare le nostre sicurezze. Forse non siamo così bravi come pensavamo, non sempre almeno. Allo stesso tempo, però, questi trucchi imprevedibili e non gestibili ricordano che c’è sempre bisogno di un po’ di margine di errore per godersi la vita. Nella progettazione dei videogiochi, insomma, viene inserito qualcosa che assomiglia alla fortuna (e anche alla sfiga, se è per questo). L’inflessibilità, l’essere rigorosi, non è automaticamente la strada migliore per ottenere il meglio dalle persone. A volte concedere un po’ di imperfezione e flessibilità può fare progredire molto più del senso di frustrazione.
Tornando a sbirciare dietro le quinte, uno dei miei inganni preferiti riguarda il turbo in alcuni giochi di guida: quando lo attivi l’incremento di velocità è minimo, ma la telecamera stringe e l’inquadratura si allarga e vibra per farti pensare di andare più veloce. Un’altra menzogna capolavoro è in Mass Effect, un gioco di ruolo a tema spaziale in cui capita di attraversare grandi basi stellari: muoversi camminando poteva essere noioso, ma necessario perché altrimenti la tecnologia di quegli anni, i primi 2000, non avrebbe potuto gestire gli spazi. Cosa fecero gli sviluppatori allora? Simularono la corsa stringendo l’inquadratura e facendo muovere più velocemente le gambe al personaggio che in realtà continuava a camminare.
Se queste bugie sono a fin di bene e tutto sommato apprezzabili in quanto espedienti che rendono il gioco più emozionante, c’è un trucco che ho sempre odiato con tutto il cuore: il cosiddetto “rubber banding”. Erano gli anni ’90, la PlayStation faceva bella mostra di sé nel mio salotto con dentro il disco di Ridge Racer che prometteva spettacolari corse casalinghe degne di quelle della sala giochi. Per l’occasione mi ero anche comprato un volante. All’inizio della gara gli avversari spariscono come se fossero di un’altra categoria, poi piano piano li recupero, uno alla volta, inesorabile. Sembrano fermi e io gli sfreccio accanto sereno, senza sbagliare una curva, devo superare solo l’ultimo. Gli arrivo alle spalle e lo sorpasso prima di una curva, senza neanche sudare. A quel punto una domanda mi sfiora: «Se era così lento come mai ci ho messo quasi due giri a raggiungerlo?». Poco importa, basta continuare così e taglierò il traguardo senza fatica, anche l’ultimo inseguitore è sparito dallo specchietto.
E invece improvvisamente eccolo che torna, sembra più veloce di me, molto più veloce di me, molto molto più veloce di prima. Si fa sotto, cerca di superarmi e non capisco come possa essere possibile: la mia auto è al limite ma poco fa, quando l’ho sorpassato, andavo a questa stessa velocità e lui sembrava fermo. Che cosa è successo? Si è svegliato ora? Ha scoperto di avere la sesta? L’ho battuto per un soffio, quel bastardo, ma se il rettilineo finale fosse stato un paio di metri più lungo mi avrebbe sorpassato senza problemi.
Il “rubber banding”, o “effetto elastico” in italiano, è uno dei fenomeni più infami nei giochi di corsa. È un trucchetto pensato per rendere le competizioni più incerte ed emozionanti che si basa su un’intuizione semplicissima: penalizzare leggermente le auto in testa e rendere più veloci quelle in coda, annullando di fatto i vantaggi di una guida pulita. Questa distorsione crea un movimento elastico tra auto di testa e di coda, che si allontanano per poi accelerare improvvisamente. È un metodo vecchissimo, ma ancora utilizzato dagli sviluppatori, che rende più emozionante il gioco quando sei un giovane incosciente ma diventa estremamente tedioso quando conosci un po’ di più come si fanno i videogiochi.
Il problema è che per quanto tu possa saperne, certe paranoie non ti abbandonano mai, anzi, spesso diventano le tue più grandi amiche. Anni e anni di videogiochi di calcio, per esempio, mi hanno convinto che esista una regia occulta, soprattutto dietro il comportamento dei portieri, il ruolo che non controlliamo quasi mai e che può alternare miracoli incredibili a papere senza senso all’ultimo secondo che ti condannano alla sconfitta dopo aver dominato la partita.
Come sempre accade, non solo con i videogiochi, quando inizi con i complottismi su Internet trovi un sacco di gente che la pensa come te. Una storia riguarda FIFA, ovvero il gioco di calcio più venduto e famoso del mondo che oggi si chiama EA Sports FC. Per anni si è discusso se la sua parte online detta FUT, quella in cui si collezionano calciatori come se fossero figurine rare per poi schierarli contro altri giocatori online, fosse in qualche modo influenzata da un fenomeno chiamato “momentum”.
In sostanza, il momentum sarebbe un modo per evitare che tu perda troppo o vinca troppo, o in modo più tecnico un adattamento dinamico della difficoltà concepito per non buttarti troppo giù se sei in fase negativa ed evitare il rischio di farti mollare il gioco, e non esaltarti troppo se sei in fase positiva, ed evitare il rischio della noia o di non farti spendere altri soldi per migliorare il team.
Sono anni che milioni di persone cercano prove di questo famigerato momentum passando ore e ore a discutere presunte prove, ma senza trovare la pistola fumante. Nel 2020, quando spuntò un brevetto risalente al 2018 che faceva riferimento a questo presunto adattamento dinamico della difficoltà, fu organizzata anche una class action contro Electronic Arts da parte di quattro giocatori. Un anno dopo, però, la causa fu ritirata perché gli accusatori si convinsero che EA non avesse utilizzato alcun sistema per alterare il gioco.
Per quanto mi riguarda, in tutta onestà, quando vedo il mio Haaland essere ripreso in corsa da un giocatore della seconda divisione tedesca con un intervento degno di Paolo Maldini continuo a nutrire qualche dubbio.
– Ascolta anche: Joypad Il podcast sui videogiochi