Allattare non è mica facile
O almeno non lo è per tutte le madri, che spesso devono affrontare sensi di colpa, vergogna o inadeguatezza se non ci riescono

Mentre era nella sala d’aspetto della pediatra, poco dopo essere passata a dosaggi importanti di latte artificiale per sua figlia, A. racconta di aver visto un poster che promuoveva l’allattamento. «Mi aveva molto intristito», dice, «perché io volevo allattare ma non ci riuscivo, e nessuno mi aveva spiegato perché». La sua confusione e il suo disagio riguardano molte donne che dopo il parto ricevono informazioni contraddittorie su come allattare e nutrire i propri figli.
Oggi c’è consenso scientifico unanime nel raccomandare l’allattamento, ma si sente ancora l’influenza dei decenni in cui era disincentivato a favore dell’alimentazione con formule sostitutive. E medici, ostetriche e altri operatori sanitari che si occupano dei neonati non danno sempre le stesse indicazioni a chi è appena diventata madre. Il loro sostegno è importante perché non è sempre semplice cominciare, né continuare a farlo per mesi. E dato che viene promosso come scelta migliore per la nutrizione dei neonati, molte donne che vorrebbero allattare ma faticano a farlo provano sensi di colpa, vergogna o inadeguatezza legati alla percezione di non essere “buone madri”.
In Italia solo il 46,7 per cento dei bambini viene alimentato esclusivamente con il latte materno a due o tre mesi di vita, secondo i dati più recenti, e solo il 30 per cento a quattro o cinque mesi. Sono percentuali insoddisfacenti per le autorità sanitarie perché l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) raccomanda di allattare i neonati in modo esclusivo, senza aggiunte di altri alimenti, fino ai sei mesi.
Può ancora succedere di sentir dire che una madre non è riuscita ad allattare perché «non aveva latte». Esistono effettivamente delle donne che hanno condizioni ormonali o anatomiche per cui non possono allattare, ma sono una parte molto minoritaria delle puerpere, le donne che hanno partorito da poche settimane. Ci sono però problemi comuni che possono complicare l’allattamento.
«La causa più frequente e più studiata è il dolore», spiega Daniela Morniroli, che è neonatologa e consulente professionale in allattamento materno al Policlinico di Milano. «Può essere dovuto a un attacco scorretto del bambino, legato magari a un’alterazione anatomica della bocca, o a infezioni del capezzolo». Fisiologicamente però allattare non dovrebbe fare male e ci possono essere dei rimedi alle cause del dolore.
Le modalità del parto sono un altro fattore che può influenzare l’esperienza dell’allattamento. «Il taglio cesareo può ritardare la cosiddetta “montata lattea”», spiega Morniroli riferendosi al momento in cui il latte materno raggiunge lo stato di latte maturo, generalmente tre giorni dopo il parto. Gli ormoni che circolano nel corpo durante il travaglio infatti preparano alla montata lattea. Anche la necessaria separazione iniziale tra madre e bambino dopo l’operazione ha un effetto ritardante. In Italia nel 2022, ultimo anno per cui è disponibile una statistica, il 31 per cento dei parti è avvenuto con taglio cesareo, a cui secondo il ministero della Salute si ricorre in modo eccessivo. Anche parti molto lunghi e complicati possono rendere più faticoso l’avvio dell’allattamento.
Di per sé il ritardo della montata lattea non impedisce di allattare, e molte donne ci riescono, ma se passano troppi giorni diventa necessario compensare la nutrizione del neonato con una formula sostitutiva, o “latte artificiale”. Il problema è che un bambino può abituarsi a quest’altra forma di alimentazione e quindi poi rifiutare l’allattamento. E dato che la produzione di latte avviene in risposta alla stimolazione dei capezzoli, secondo un meccanismo di domanda e offerta, in questi casi la lattazione può ridursi molto o interrompersi. Ci sono delle tecniche che permettono di proseguire l’allattamento, soprattutto se le madri sono accompagnate da figure professionali qualificate. Possono richiedere però un certo impegno, e senza un adeguato sostegno, risultano macchinose.
Il caso di A., che non è particolarmente eccezionale, è stato influenzato da vari fattori. La sua bambina è nata con un cesareo complicato in cui lei aveva perso molto sangue e la montata lattea le è arrivata tardi: «Mia figlia è calata di peso e abbiamo dovuto darle l’artificiale». La bambina però si attaccava ai capezzoli facilmente e una puericultrice dell’ospedale, la professionista che assiste i neonati e le loro madri, le suggerì di diminuire l’aggiunta di formula.
A. desiderava allattare ma si trovò in difficoltà quando questa indicazione venne contraddetta da un’ostetrica dello stesso ospedale, e poi da una pediatra, che in modo piuttosto severo le disse di aumentare il dosaggio di artificiale perché la bambina non stava mangiando abbastanza. Una seconda ostetrica, incontrata in consultorio qualche tempo dopo, le disse che invece le dosi di formula prescritte erano eccessive, e le avrebbero impedito di continuare ad allattare.
«Molte madri raccontano di esperienze di sostegno contrastanti», dice Claudia Proserpio, psicoterapeuta, a sua volta consulente e membro dell’Associazione italiana consulenti professionali in allattamento materno (AICPAM), «in cui i problemi invece che risolversi peggiorano perché la madre non sa cosa scegliere».
Fino a qualche tempo fa quasi non si parlava di allattamento, durante i corsi universitari in medicina, e tuttora spetta al singolo corso di laurea decidere se e come occuparsene. Nei corsi di laurea in infermieristica e ostetricia invece il tema è più trattato. L’esperienza di una specifica madre o coppia di genitori può comunque essere molto diversa a seconda delle persone incontrate sul proprio percorso e del loro aggiornamento professionale.
«Una madre può decidere a suo insindacabile giudizio come alimentare il proprio bambino», commenta Morniroli, «ma non si può parlare di autodeterminazione se la madre ha di fronte qualcuno che la fa sentire come se stesse affamando il bambino perché vuole allattarlo. E purtroppo capita spesso».
Ci sono anche altre circostanze che possono rendere l’allattamento più impegnativo: le condizioni di salute della madre o sue precedenti esperienze negative con l’allattamento stesso, un contesto socio-economico familiare che impedisce alla madre di dedicarsi al neonato quanto sarebbe necessario e il temperamento del singolo bambino (alcuni dopo aver ricevuto da mangiare da una tettarella non vogliono più attaccarsi ai capezzoli).
Anche le aspettative riposte sull’allattamento stesso da parte dei genitori possono avere un ruolo nello sconforto provato in caso di problemi. «L’immaginario collettivo è ancora spesso legato all’esperienza del latte artificiale», spiega Morniroli: «Molte madri immaginano un neonato che mangia e poi si addormenta, e rimane sereno per tre ore consecutive, in cui la madre ha tempo di prendersi cura di sé stessa e fare altre cose. Purtroppo non è così, soprattutto non i primi giorni».
A partire dagli anni Cinquanta nei paesi più industrializzati si era diffusa l’abitudine di nutrire i neonati con le formule sostitutive, prodotte a partire da latte vaccino modificato. Per alcuni decenni i messaggi pubblicitari delle formule le avevano proposte come alternative equivalenti al latte materno (non lo sono: nel tempo sono state migliorate ma tuttora non contengono alcuni elementi importanti del latte materno, come gli anticorpi), se non addirittura migliori. Le donne intanto lavoravano sempre di più fuori casa e la nutrizione con le formule sembrava più compatibile con la gestione dei bambini piccoli rispetto all’allattamento, e anche per questo era preferita.
Soprattutto dagli anni Novanta però l’OMS e altre autorità sanitarie cercarono di cambiare questa tendenza. La raccomandazione sull’allattamento è fondamentale nei paesi più poveri, perché dove ci sono meno risorse alimentari e condizioni igieniche non ottimali il latte materno favorisce la sopravvivenza dei bambini, fornendo loro un’alimentazione corretta, ma l’indicazione vale anche per i paesi sviluppati.
Serie di studi suggeriscono che i bambini allattati al seno hanno meno rischi di crescere sovrappeso o diventare obesi durante l’infanzia. Inoltre per le donne che allattano per più di un anno è stata stimata una riduzione del rischio di sviluppare un tumore al seno del 26 per cento e un tumore alle ovaie del 37 per cento. E la ricerca sull’allattamento è tuttora aperta.
Utilizzando i sostitutivi del latte materno, soprattutto con i dosaggi e le formulazioni del passato, capitava che i bambini dormissero più a lungo dopo aver mangiato, e questo ha contribuito a creare un immaginario del comportamento dei neonati diverso da quello fisiologico. Secondo le conoscenze scientifiche più recenti, è normale che un neonato manifesti di essere affamato almeno dalle 8 alle 12 volte nelle 24 ore, e ai genitori è suggerito di nutrirlo ogni volta che lo richiede, e non a orari prestabiliti. Questo anche nel caso in cui siano usate le formule sostitutive (compatibilmente con le dosi prescritte per l’età del bambino).
La seconda causa più frequente di un’esperienza negativa con l’allattamento secondo Morniroli è «la percezione di una produzione insufficiente di latte». «Un neonato può chiedere di essere allattato anche molto di frequente e se le madri non se lo aspettano possono essere indotte a pensare di non avere latte a sufficienza. E se per tentare di “correggere” la situazione iniziano ad allattare meno, o ad allattare a orari fissi perché viene loro consigliato di fare così, la produzione di latte può effettivamente diminuire».
Per diffondere una conoscenza più accurata dei comportamenti dei neonati e aiutare le madri ad allattare esistono i consulenti professionali in allattamento materno, che possono essere ostetriche, infermieri, medici o anche donne con esperienza di allattamento. Sia Morniroli che Proserpio hanno una specializzazione certificata, indicata dall’acronimo IBCLC, che sta per “International Board Certified Lactation Consultant”: la loro competenza è garantita dall’International Board of Lactation Consultant Examiners (IBLCE), un ente internazionale che verifica la formazione di chi fa consulenza sull’allattamento.
A. poi ha continuato a portare avanti l’allattamento in parallelo alla nutrizione con la formula fino agli 11 mesi di sua figlia. Per altre madri che incontrano delle difficoltà e non sono aiutate a sufficienza, la produzione di latte diminuisce oppure l’unica soluzione possibile sembra essere usare esclusivamente il latte artificiale. Ci sono anche donne che dopo un’iniziale esperienza negativa dovuta al dolore o ad altri fattori scelgono di smettere di allattare.
I consulenti IBCLC seguono un codice di condotta che dice di non cercare di imporsi sulle scelte di una madre o di una famiglia. Dice Proserpio: «L’allattamento è una relazione e la salute di entrambe le parti deve essere tutelata il più possibile. Bisogna tenere conto delle risorse emotive e concrete di ogni specifica famiglia e se la famiglia decide di rinunciare all’allattamento è fondamentale che non si senta giudicata o abbandonata». I consulenti possono anche suggerire le modalità più adatte per la nutrizione con le formule sostitutive, che è a sua volta un momento importante nella costruzione del rapporto tra genitori e neonato: è quello che fanno con le donne che fin dall’inizio scelgono di non allattare, dopo aver dato loro tutte le informazioni scientifiche sui vantaggi del latte materno.
Ripensando ad alcuni momenti della sua esperienza, A. ricorda di aver provato un grosso sconforto e di aver avuto grossi dubbi sulle proprie capacità di nutrire al meglio sua figlia. Molte donne che come lei hanno avuto difficoltà ad allattare si mettono in discussione o si sentono in colpa anche perché nella promozione dell’allattamento viene dato rilievo al legame affettivo che si crea tra una donna che allatta e suo figlio: se una madre non ci riesce può temere di aver perso qualcosa di fondamentale nel rapporto col proprio bambino.
«Il mio lavoro quotidiano praticamente è togliere il senso di colpa alle madri», racconta Morniroli. «C’è un gomitolo di emozioni, il senso di colpa può convivere con altri sentimenti, anche di liberazione quando si interrompe un allattamento che non andava bene», aggiunge Proserpio: «e i consulenti devono fare attenzione a questa complessità».
Molti studi hanno indagato le relazioni tra la salute mentale delle madri e l’esperienza dell’allattamento. In generale il momento in cui due persone diventano genitori è «un tempo di cambiamento e maggiore vulnerabilità dal punto di vista psichico», spiega Proserpio. Per questo è una circostanza in cui aumenta il rischio che si sviluppi un disturbo dell’umore o si aggravi un problema già esistente, anche nei padri. In questo contesto, per la madre l’allattamento può avere un effetto molto positivo se funziona bene, o deleterio se è problematico, e in particolare doloroso.
Nel 2022 un’analisi di confronto di 55 studi scientifici recenti ha riscontrato che nella maggior parte dei casi l’allattamento è associato a un miglioramento della salute mentale materna, a meno che non risulti molto impegnativo o molto distante dalle aspettative della madre. In quei casi è associato a un peggioramento della salute mentale. Secondo gli autori dell’analisi le raccomandazioni sull’allattamento devono dunque essere personalizzate. Un risultato analogo è emerso da un’analisi del 2024 che ha preso in considerazione 17 studi su donne che avevano dei preesistenti problemi di salute mentale, come disturbi alimentari, disturbi ossessivo-compulsivi o stress post traumatico.
Dietro alla relazione tra benessere psichico e allattamento ci sono dei meccanismi biologici. Il rilascio di latte dalle mammelle è favorito dall’ossitocina, un ormone legato agli stati di benessere: «Per questo l’allattamento ha anche un effetto protettivo per ansia e depressione», spiega Morniroli. Una sensazione di dolore fisico o uno stato di stress intenso però possono bloccare l’ossitocina e indirettamente compromettere l’allattamento.
Esistono anche condizioni di “avversione all’allattamento”: ci sono donne che riescono ad allattare senza problemi fisici, ma provano sentimenti discordanti durante la poppata, che può risultare intollerabile. «Le cause non sono ancora chiare», spiega Proserpio, «sicuramente c’è una componente ormonale ma i fattori emotivi sono tanti, ci sono molte madri che si sentono abbandonate a dover gestire un bambino da sole».
Sia Proserpio che Morniroli consigliano a chi si sta preparando a diventare genitore di informarsi sui comportamenti fisiologici dei neonati già durante la gravidanza, cercare aiuto per l’allattamento subito dopo il parto ed essere uniti sia all’interno della coppia che in una più ampia rete sociale.
«Il partner della madre non deve essere spettatore passivo. È importante che si informi sull’importanza dell’allattamento, sulla sua fisiologia e su come ci si prende cura di un neonato. Il sostegno alla madre nel primo periodo dopo il parto è già una cosa importante», dice Morniroli. E poi aggiunge: «E se vogliamo proprio dirla tutta, sarebbe bene che fosse più facile accedere al congedo parentale anche per i partner, per permettere loro di stare a casa con le madri che allattano, e occuparsi a propria volta dei bambini e aiutando su tutto il resto».