Delle “truffe affettive” come quella di Brad Pitt si parla poco
In Italia le storie di dipendenza da finti profili online riguardano migliaia di persone di ogni età, genere e professione
La scorsa settimana c’è stato un grosso caso mediatico attorno alla storia di una donna francese, identificata come Anne, che in un programma televisivo ha raccontato di essere stata truffata da un gruppo di persone che le avevano fatto credere di star chattando con Brad Pitt, convincendola a dargli 830mila euro per un’operazione chirurgica. Anne, che dopo la trasmissione ha ricevuto critiche anche molto pesanti per esserci cascata, ha risposto sostenendo che «se foste stati al mio posto sareste caduti nella trappola anche voi».
È una cosa difficile da credere ma che ribadiscono anche in Italia le molte persone rimaste vittime di quelle che vengono definite “truffe affettive”. Acta, un’associazione che segue questi casi in Italia dal 2014, dice di essere stata contattata in 10 anni da oltre 22mila persone, circa 6 al giorno, che hanno sviluppato una dipendenza affettiva dai loro truffatori. Conferma che le vittime sono molto varie: «abbiamo tantissime donne plurilaureate, docenti universitarie, imprenditrici, magistrate. E anche tante donne giovani, sui trent’anni». Succede anche a molti uomini, che però sono meno visibili perché generalmente meno disposti a denunciare o a parlarne. Come è successo ad Anne, è facile che le vittime di queste truffe vengano derise e ridicolizzate, non solo da persone vicine ma anche dalla polizia a cui si rivolgono per denunciare. Il risultato, oltre alla perdita economica, è spesso un crollo psicologico da cui è difficile riprendersi. E il fatto che di questo fenomeno si continua a parlare molto poco.
Una delle prime donne in Italia a raccontare la propria esperienza di vittima di una truffa affettiva è stata Jolanda Bonino. La sua testimonianza è raccolta nei primi due episodi del podcast di Roberta Lippi Love Bombing ed è piuttosto impressionante da ascoltare. Bonino è infatti una donna colta e femminista, che ha sempre lavorato nel sociale e che aveva studiato come funziona la manipolazione psicologica nelle relazioni. Nonostante questo, e nonostante i molti sospetti, ha sviluppato una dipendenza affettiva per quello che riteneva essere un uomo francese conosciuto su Facebook, e gli ha mandato centinaia di euro. Anche quando, dopo indagini e ricerche, ha avuto le prove del fatto che non si trattava di un uomo ma di un gruppo di truffatori professionisti, ci ha messo del tempo ad accettarlo.
Nel 2014 ha fondato l’associazione Acta (Azione Contro Truffe Affettive e Lotta Cybercrime) per dare sostegno a persone diventate come lei vittime di truffe affettive. Nonostante questo suo impegno, racconta di essere andata avanti a cercare il profilo dell’uomo che l’aveva adescata, monitorando le altre donne con cui entrava in contatto e provando gelosia. «La dipendenza affettiva è come una dipendenza da una droga, non importa se hai smascherato la truffa, il desiderio di quel messaggio e di quell’affetto è più forte di qualsiasi cosa», spiega. In questo senso non è neanche così impensabile che ci si possa illudere di essere in una relazione con Brad Pitt, o con Marco Mengoni per fare un esempio italiano realmente accaduto.
Da Acta fanno sapere che «si parla spesso di “truffe romantiche” o “truffe amorose”, ma noi preferiamo truffe affettive proprio perché si basano sulle dipendenze affettive. Anche se chiamarle truffe è riduttivo perché dietro arrivano a esserci anche dieci reati diversi, dall’associazione a delinquere all’usurpazione di immagine e identità, dall’estorsione, a volte con revenge porn, al riciclaggio».
Le vittime che denunciano però sono poche, perché la prima reazione quando scoprono di essere state truffate è di vergogna e senso di colpa. Anche chi va alla polizia si scontra col fatto che è un tipo di truffa poco conosciuto e regolamentato. Spesso gli agenti lo sottovalutano, prendendo alla leggera (se non ridicolizzando) le preoccupazioni delle vittime e consigliando loro semplicemente di interrompere la comunicazione coi truffatori: che è esattamente quello che non riescono a fare. A volte le vittime hanno rapporti sessuali a distanza e poi vengono ricattate con audio o immagini, ma si vergognano troppo per parlarne con le forze dell’ordine. Inoltre le denunce vengono fatte contro ignoti, o contro persone con nomi e indirizzi stranieri. Quasi sempre vengono archiviate.
Bonino ha raccontato che nel suo caso tutto è cominciato in un momento in cui aveva da poco smesso di lavorare e aveva ridotto le sue molte attività sociali perché doveva occuparsi della madre malata che viveva con lei. Quando è stata contattata da quello che si spacciava per un ingegnere francese è stata inizialmente contenta di potersi esercitare con la lingua, e poi ha cominciato ad affezionarsi e a diventare dipendente dalla sua compagnia, che la teneva impegnata nelle sere che altrimenti avrebbe passato sola a casa. Per molto tempo l’uomo non le ha chiesto niente, coltivando la sua fiducia con lunghe conversazioni e verificando la sua scarsa praticità con l’uso di internet. Lei aveva molti dubbi ma allo stesso tempo pensava che finché rimaneva una relazione virtuale nessuno avrebbe potuto farle del male, e che non essendo ricca non c’era motivo per cui un truffatore avrebbe dovuto scegliere proprio lei.
Quando per la prima volta le ha chiesto dei soldi (per un intervento chirurgico mentre diceva di trovarsi per lavoro in Costa d’Avorio) e lei non glieli ha mandati, perché sospettosa, si è mostrato comprensivo. Poi però le ha mandato una cartella medica realistica e gliene ha chiesti altri, e Bonino ha ceduto, sentendosi in colpa all’idea di non dare una mano a quella che avrebbe potuto essere una persona vera in difficoltà.
Anche quando ormai aveva molti elementi per rendersi conto che era tutta una truffa, Bonino racconta che continuò a mandare soldi «per liberarmi dell’ansia» e perché era vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma, cioè la tendenza irrazionale e apparentemente paradossale delle persone che subiscono un abuso a stabilire un legame con chi le costringe in quella situazione e a empatizzare con loro, giustificandole o diventando loro complici. «Quando ci sei dentro hai un eccesso di euforia: io parlavo in continuazione, ti senti bellissima, e lo sei anche, come quando sei innamorata», racconta Bonino. Ci sono persone della rete di Acta che hanno dato centinaia di migliaia di euro, anche che non avevano: vendendo la casa, indebitandosi, chiedendo la liquidazione anticipata o prestiti ad amici.
Bonino, come molte altre persone che hanno vissuto la stessa esperienza, aveva visto delle foto del suo interlocutore e ci aveva anche fatto delle videochiamate, pur preferendo la comunicazione via chat. Ha poi scoperto che quelle videochiamate erano fatte con sistemi di deepfake e che le foto che pensava fossero dell’ingegnere francese erano in realtà foto di qualcun altro: le trovò su un sito francese creato proprio per mettere in guardia dai truffatori. Online ce ne sono diversi che si possono consultare in caso di dubbi: uno per esempio è quello della trasmissione Chi l’ha visto?, ma il modo migliore per trovarli è probabilmente fare una ricerca con Google Immagini partendo dalla foto (c’è una funzione apposta, quella identificata dall’icona della macchina fotografica).
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Una storia molto simile è quella di Rossana Tescaroli, che recentemente l’ha raccontata in vari programmi televisivi e in un libro, spiegando di voler sensibilizzare più persone possibili ai rischi delle truffe affettive. Tescaroli ha raccontato di aver sviluppato una dipendenza dalla comunicazione via chat con i suoi truffatori, che anche nel suo caso si spacciavano per un uomo francese. Rendendosi conto del problema, ancora prima di scoprire che era una truffa, aveva deciso di impiegare lo stesso metodo che aveva usato anni prima per smettere di fumare: «staccarmene un po’ alla volta». Nonostante questo però finì comunque col mandargli circa 1.000 euro: quando gliene chiesero 6.000 capì che si trattava di una truffa, venne lasciata dal marito e cadde in depressione al punto da pensare al suicidio.
Acta si occupa anche di spiegare ai familiari come funziona la dipendenza affettiva nei casi di truffa: «ai mariti che lo vivono come un tradimento proviamo a spiegare che non è così, che sarebbe potuto capitare anche a loro: alcuni lo capiscono, altri invece interrompono il rapporto». Per riprendersi da un’esperienza del genere le vittime possono impiegare qualche mese ma anche due o tre anni. Spesso ci ricascano perché i truffatori sanno che dopo essere stati smascherati continuano ad avere un potere su di loro, oppure trovano dei modi diversi per aggirarle. Per esempio una delle donne che si sono rivolte ad Acta è stata contattata da una persona che diceva di essere dell’Interpol e di aver bisogno di lei per incastrare i suoi truffatori: convinta di poterli smascherare, la donna si è rimessa in contatto con loro e guidata da quella che pensava fosse la polizia (ma che erano sempre loro) ha finito col dare altri soldi. Altre volte ancora le vittime vengono usate per riciclare denaro: quindi ricevono una somma con le istruzioni di mandarne una parte a qualcun altro.
Un grande problema di questo tipo di dipendenza e di truffe, dice Bonino, è la vittimizzazione secondaria, e cioè il fatto che le vittime diventano vittime una seconda volta quando provano a denunciare o a parlare di quello che hanno subito. Il caso di Anne, la donna francese, è esemplare proprio del fatto che culturalmente si tende a pensare che la colpa sia delle vittime, che avrebbero potuto stare più attente. Questa colpevolizzazione, oltre a pesare su persone già molto fragili, ha come effetto il fatto che le vittime preferiscono non parlare delle truffe. È anche per questo che sono poco conosciute e funzionano ancora molto bene.
Oltre a conoscere le dinamiche con cui vengono portate avanti, cosa che può aiutare a riconoscerle quando ancora la dipendenza affettiva non c’è, per Acta il modo per proteggersi è «non isolarsi: non vergognarsi e parlarne». Quello che succede tipicamente invece è che per paura di essere ridicolizzate, per esempio dai figli o dalle amiche, le vittime si isolino e facciano ancora più affidamento sull’affetto e la comprensione che sentono di trovare nella loro relazione in chat. «Puoi essere una persona che vede tanta gente, con un marito e una famiglia, ma che per qualche motivo vive una sorta di solitudine che riempi in quel modo», spiega Bonino, «alla fine della giornata non vedi l’ora di tornare a casa a chattare».
Le indagini sulle organizzazioni criminali che ci sono dietro alle truffe affettive non sono facili da fare perché spesso hanno origine in paesi dell’Africa o dell’Asia la cui polizia non è collaborativa. Ogni tanto però viene fuori qualche storia. Un’inchiesta del New York Times del 2023 ha raccontato di un giovane cinese adescato da un’organizzazione criminale, che pensando di andare a lavorare come interprete in Thailandia finì per portare avanti truffe affettive via chat insieme a molti altri come lui. È frequente, infatti, come nei casi di Bonino e Tescaroli, che le conversazioni avvengano in inglese o francese: da Acta dicono che tante vittime sono insegnanti di inglese che iniziano le relazioni in chat perché gli piace l’idea di esercitarsi con la lingua.