Perché alcuni stanno meglio di altri?

«Nell’istante stesso in cui misi giù il telefono aprii il computer. E mi sentii, per l’ennesima volta, scemo. Come avevo fatto, con tutti i libri che avevo letto su neuroscienze, scrittura e creatività, a perdermi cinquant’anni di ricerca che parlavano di ciò che sperimentavo tutti i giorni e che probabilmente mi aveva salvato la vita?»

Due spettatori alla Henley Royal Regatta l'11 luglio 2021 a Henley-on-Thames, Inghilterra (Dan Kitwood/Getty Images)
Due spettatori alla Henley Royal Regatta l'11 luglio 2021 a Henley-on-Thames, Inghilterra (Dan Kitwood/Getty Images)
Caricamento player

Erano due i caratteri peculiari della mia infelicità, da piccolo. Il primo era che, apparentemente, non aveva una giustificazione: venivo da una bella e ricca famiglia, passavo da un giardino a un altro di ville sulle colline fiorentine, ero circondato da persone che mi amavano. Eppure c’era come qualcosa che mi braccava, una sorta di paura. Non avrebbe sorpreso se quella paura mi avesse spinto a chiudermi in me stesso, affondare nella mia precoce passione per la scrittura e per i libri che potevano alimentarla. Avevo invece il vizio di farla esplodere, sotto forma di vessazioni, vandalismi, pugni. Quando a diciassette anni la mia furia rischiò di uccidere una persona, scattarono in me per fortuna degli allarmi, e riuscii a fermarmi.

Una dozzina di anni dopo la mia vita sembrava aver imbroccato delle correnti capaci di spingermi lontano: avevo una fidanzata, un paio di volumi a mio nome sugli scaffali delle librerie, persone che venivano ad ascoltarmi nei festival, o a seguire le mie lezioni. Chi sapeva la mia storia prese a farmi una domanda: come hai fatto?

A fare che?, domandavo io le prime volte.
A cavarne le gambe.

Ero sorpreso: le quotidiane angosce sulla mia moltitudine di limiti non mi avevano permesso di fermarmi, osservare la mia vita come da lontano, e ammirare quale oceano corresse tra il teppista di un tempo e il giovane che d’un tratto veniva invitato all’estero a parlare dei suoi libri. E improvvisamente, per rispondere alla fatidica domanda, dopo aver balbettato qualche banalità su famiglia, amici, fortuna, tranquillanti, mi sorpresi a dare una precisa risposta: scrivere.

Per non rischiare che questa appaia come un’analisi troppo soggettiva, vale la pena sottolineare che la teoria è stata confermata da almeno un paio di terapisti.

Era così: in mezzo al maremoto in cui ero cresciuto e le onde – certo più dolci e lunghe, ma non meno alte – che mi avevano spinto in giro per il mondo e portato dov’ero, l’unica certezza, che adesso appariva come una zattera – o chissà, come il mio stesso scafo – era il tempo che ogni giorno avevo passato sui miei libri.

Ci avevo messo diversi anni, ma avevo finito per non passare quel tempo come capitava: lo passavo in specifici orari, con in mano una specifica penna, su uno specifico quaderno, per uno specifico tempo e con degli specifici riti che mi permettessero di ricostruire ogni giorno esattamente quella stessa scatola.

Il punto non era scrivere a mano (che è faticoso e poi tocca ricopiare, che è ancora più faticoso) o usare quel quaderno (che si trova solo in America) o a quell’ora (che mi obbligava ad andare a letto con le galline e alzarmi a buio, mentre avrei preferito guardarmi un film e bermi il caffè guardando l’alba). Il punto è che quella serie di elementi mi permettevano di entrare più facilmente in un particolare stato della mente, in cui parole e immagini riuscivano spesso a sorprendermi. Ero, là dentro, una versione migliore di me stesso, e questo sembrava acquietare e riorganizzare anche il resto della giornata.

Il primo ricordo di quello stato è per un tema di terza elementare che ancora conservo. A dire il vero non ritrovo nel tema segni di chissà quale guizzo, ma ricordo come l’addensamento di una focale, l’improvvisa soddisfazione per la percezione e la trasposizione di una serie di dettagli.

Era tale a mio avviso l’importanza del rapporto di questo particolare stato mentale con la scrittura che cercavo, arrabattandomi per trovare le espressioni giuste, di parlarne nei miei corsi. Finii per accennarlo a un mio amico neuroscienziato, mentre chiacchieravamo di un possibile seminario da fare insieme sulla creatività.
Sì, si chiama flow, mormorò il mio amico.
In che senso, si chiama flow?

Nel senso che è così che viene chiamato in psicologia.
Lo confesso: ho per qualche ragione l’incapacità di ammettere che non so qualcosa, e sorvolai, ma nell’istante stesso in cui misi giù il telefono aprii il computer. E mi sentii, per l’ennesima volta, scemo. Come avevo fatto, con tutti i libri che avevo letto su neuroscienze, scrittura e creatività, a perdermi cinquant’anni di ricerca che parlavano di ciò che sperimentavo tutti i giorni e che probabilmente mi aveva salvato la vita? Devo anche ammettere che dopo essermi gettato in uno dei più stordenti vortici da studio in cui mi sia mai andato a cacciare, finii per essere meno duro con me stesso: c’era, in italiano, poco o nulla.

Nei primi anni Settanta un giovane e spiritoso professore della Chicago University, figlio di diplomatici ungheresi, cresciuto a Roma e dal nome impossibile, Mihály Csíkszentmihályi (il cognome si pronuncia Cizenmiháli), dopo una serie di ricerche su specifiche attività dell’essere umano come la creatività, il gioco e lo sport, si pose il problema di come allargare alla vita quotidiana e alle persone comuni la domanda che lo assillava fin da studente: perché alcune persone stanno meglio di altre?

Stavano uscendo in quegli anni i primi cercapersone, Csíkszentmihályi pensò di farli suonare in momenti casuali della giornata e chiedere ai 150 soggetti del suo primo studio di riempire ogni volta un breve questionario su ciò che stavano facendo e sulla qualità della loro esperienza. Il metodo, assimilato poi da università di tutto il mondo, è noto come ESM (Experience Sampling Method). Pur tenendo conto dei problemi legati alla ripetibilità degli esperimenti di psicologia, la mole di informazioni che Csíkszentmihályi e il suo staff riuscirono improvvisamente a raccogliere fu immensa, e aprì a una serie di rivelazioni.

Una delle prime fu che le persone apparentemente più felici erano anche le persone che rendevano meglio nei loro interessi o nelle loro mansioni. Ognuna di queste persone sosteneva di passare ampie fette delle sue giornate in un particolare stato mentale. Era uno stato di totale assorbimento e concentrazione, dove il tempo veniva distorto e l’attività svolta sembrava compiersi quasi per conto proprio. Tutti usavano parole diverse per descrivere questo stato, ma l’immagine che tornava più spesso era quella di un flusso. Così dunque Csíkszentmihályi decise di chiamare questo particolare stato della mente umana. Il senso di gratificazione del flusso sembrava cospargere il resto della giornata, e le persone che lo sperimentavano quotidianamente apparivano non solo più produttive, ma anche più serene.

Csíkszentmihályi sdoganò così in psicologia un concetto che fino a quel momento era stato esclusivo della fisica: entropia. Per chi avesse poca pratica di questo termine e non avesse voglia di andare a ricercarsi complicate definizioni, lo semplifichiamo così: l’entropia è la quantità di disordine, o dispersione di energia, di un sistema. Secondo ciò che Csíkszentmihályi osservava, alcune persone riuscivano evidentemente a immagazzinare meglio le informazioni e a trasformarle meglio in azioni, perdendosi meno in ciò che chiamiamo pensieri inutili, o dannosi. E la principale causa di questo loro talento era la capacità di entrare in uno stato di flow, lo stato di maggiore efficienza – quindi di minore entropia – della mente umana.

All’allargarsi della ricerca, un’altra inattesa rivelazione fu che il flow non aveva limitazioni o confini: i dati mostravano che il flow veniva sperimentato in ugual misura in tutte le parti del mondo, da tutte le fasce di età, di reddito, di cultura, e in tutti i tipi di attività. Veniva dunque da domandarsi come mai alcune persone sembravano avere una maggiore disposizione ad accedervi, e, di conseguenza, se queste disposizioni erano assimilabili. I sostanziali ingredienti di questa disposizione sembrerebbero essere una sorta di allegra e meticolosa curiosità, e una particolare forma di agonismo: la prima addensa la nostra attenzione, la seconda ci mantiene in stato di flow.

Una delle affascinanti caratteristiche del flow è che per essere attivato ha bisogno di uno specifico rapporto tra un compito e la competenza di chi lo affronta. Se la difficoltà del compito è troppo alta, il sistema va in crisi, sotto forma di ansia; se invece il compito è troppo al di sotto delle proprie capacità, il sistema si annoia e si spegne. Per stare in stato di flow dobbiamo navigare in un particolare luogo in cui abbiamo il dubbio di non riuscire ma le capacità per venirne a capo. Dobbiamo restare in una zona, per così dire, di rischio, spingerci sempre un po’ più in là.

Il rapido sviluppo di medicina e tecnologia ha permesso, soprattutto negli ultimi anni, di capire quale impressionante cocktail neurochimico si nasconda dietro a questo stato mentale, e si sta iniziando a comprendere lentamente quali siano i meccanismi attraverso cui riesce a disattivare alcune parti del cervello per permetterci di concentrare la nostra limitata capacità di elaborazione su uno specifico scampolo della nostra esperienza. L’attenzione è lo strumento – forse l’unico su cui abbiamo un vero controllo – con cui riusciamo a orientare quel fascio di concentrazione. Ecco perché, all’inizio degli anni Novanta, dopo quasi trent’anni di studio, Csíkszentmihályi finì per nascondere in una qualunque pagina del suo più noto testo divulgativo, Flow – Psicologia dell’esperienza ottimale (ROI Edizioni), questa apparentemente insignificante affermazione: “La forma e il contenuto della vita dipendono da come si adopera l’attenzione”. Ecco la semplice, sorprendente summa di una vita di ricerca, e la riproduzione in larghissima scala del tragitto che mi aveva portato fuori dal pantano.

Nel suo ultimo libro divulgativo pubblicato in Italia, Creatività (ROI Edizioni), Csíkszentmihályi sarebbe tornato a puntare la sua, di attenzione, verso ciò che lo aveva affascinato fin dalla propria tesi di dottorato, cercando infine di sviscerare ciò che nascondono le persone che più di tutte sembrano modificare il nostro mondo e le nostre condizioni di vita, attraverso le loro opere, le loro aziende e le loro scoperte scientifiche. Oltre a stabilire che le qualità del singolo non sono altro che parziali ingredienti della formula magica, giunse alla definitiva convinzione che l’aperta e sistematica applicazione della propria attenzione a un dominio simbolico fosse la strada più sicura verso una qualche forma di felicità, e il segreto dei più grandi traguardi dell’essere umano.

Ammetto che, se ho qualche ragione di esistere, è per certificare che, probabilmente, tutti i torti non li aveva.

Pietro Grossi
Pietro Grossi

Oltre a scrivere i suoi otto volumi tra romanzi e raccolte di racconti, Pietro Grossi si impegna da più di venti anni a divulgare lettura e scrittura.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su