Cosa è questo “piano laghetti” contro la siccità

Punta a costruire 10mila invasi artificiali per raccogliere l'acqua, ma finora ha accumulato soltanto ritardi

La grave carenza di acqua nel fiume Po, la scorsa estate (ANSA/RICCARDO DALLE LUCHE)
La grave carenza di acqua nel fiume Po, la scorsa estate (ANSA/RICCARDO DALLE LUCHE)

Alla fine di gennaio è stato inaugurato un nuovo invaso realizzato nella cava dismessa di Bargnana a Castrezzato, in provincia di Brescia: ha una superficie di 20mila metri quadrati e una capacità di 150mila metri cubi di acqua. Servirà a contenere le eventuali piene del canale artificiale Trenzana-Travagliata, che scorre al suo fianco, ma soprattutto farà da bacino artificiale per accumulare l’acqua necessaria all’irrigazione in un territorio che negli ultimi due anni ha sofferto molto la siccità. L’ex cava di Castrezzato fa parte del cosiddetto “piano laghetti”, che punta a sostenere vecchi e nuovi progetti di invasi artificiali in tutte le regioni con l’obiettivo di evitare la dispersione di acqua e soddisfare il fabbisogno idrico.

Nonostante l’enfasi con cui era stato rilanciato lo scorso anno, finora i risultati del piano laghetti sono stati scarsi: ne sono stati fatti pochi e in ritardo rispetto alle previsioni iniziali. L’invaso di Castrezzato è la dimostrazione delle difficoltà dovute principalmente alla burocrazia: è il primo realizzato in Lombardia, sei anni dopo la legge regionale che aveva consentito di sfruttare le ex cave come bacini artificiali.

Del piano laghetti si discute da tempo: ANBI, l’associazione nazionale bonifiche e irrigazioni, ovvero l’ente che coordina tutti i consorzi di bonifica italiani, e Coldiretti, l’associazione che rappresenta gli agricoltori, presentarono il piano per la prima volta nell’autunno del 2021. C’erano già avvisaglie della siccità, ma l’emergenza sarebbe iniziata mesi dopo, nella primavera del 2022. Pensato come grande opera di prevenzione in vista della possibile carenza di acqua, quindi con tempi di realizzazione piuttosto lunghi, dallo scorso anno amministratori e politici hanno iniziato a considerarlo un rimedio urgente alla carenza di acqua.

Le premesse del piano si basano sugli scarsi investimenti italiani nella costruzione e nella manutenzione delle infrastrutture idrauliche. Secondo i dati diffusi dall’ANBI, ogni anno in Italia cadono circa 300 miliardi di metri cubi di acqua di cui si riesce a trattenere soltanto l’11 per cento. In Spagna, per esempio, ne viene trattenuto circa il 35 per cento. I serbatoi presenti in Italia con questo scopo sono 114 con una capacità totale di un miliardo di metri cubi di acqua. Dall’inizio degli anni Novanta il fabbisogno idrico in agricoltura si è molto ridotto grazie all’innovazione tecnologica e alla cosiddetta agricoltura di precisione, ma la siccità ha annullato questo vantaggio.

Nelle intenzioni dei suoi promotori, il piano laghetti dovrebbe sfruttare meglio tutta l’acqua che oggi viene dispersa. In sostanza, il piano consiste nella realizzazione di 4.000 invasi “consortili”, cioè costruiti dai consorzi di bonifica, e 6.000 invasi fatti dalle aziende agricole. Si tratta di 10.000 bacini artificiali di piccole dimensioni e con un basso impatto ambientale perché non prevedono opere in cemento o l’interruzione di corsi d’acqua.

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I bacini artificiali servono a raccogliere l’acqua da utilizzare nei periodi in cui ce n’è poca, ma possono essere utilizzati anche come superficie su cui installare pannelli solari galleggianti per la produzione di energia. Secondo le stime dell’ANBI, a dire il vero piuttosto ottimistiche, si potrebbero produrre fino a 259 gigawattora coprendo il 30 per cento della superficie dei bacini con impianti fotovoltaici galleggianti e con la costruzione di 76 impianti idroelettrici. «Gli invasi non sono utili soltanto per il fabbisogno idrico in agricoltura», dice Massimo Gargano, direttore generale dell’ANBI. «Possono essere utilizzati anche in caso di emergenza per la mancanza di acqua potabile. Nelle ultime settimane, per esempio in Piemonte dove sono state utilizzate autobotti per portare l’acqua in alcune frazioni di montagna, abbiamo visto concretamente quanto siano gravi i danni della siccità».

Dei 10.000 progetti del piano complessivo, già dallo scorso anno 223 avevano raggiunto la fase esecutiva, cioè si possono costruire, ma finora ne sono stati inaugurati pochi. I soldi non sembrano essere un problema: il PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza, ha già messo a disposizione 880 milioni di euro, una parte consistente dei 3,2 miliardi di euro necessari per questa prima parte del piano, la più costosa.

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Ritardi e lentezze sono causati piuttosto dalla storica e per certi versi confusa divisione delle competenze all’interno del governo: intervengono di volta in volta e senza criteri precisi i ministeri delle Politiche agricole, dell’Ambiente e delle Infrastrutture, oltre ovviamente a quello dell’Economia. Tutti se ne dovrebbero occupare, ma il risultato è che finora in pochi hanno affrontato davvero il problema. A tutto questo vanno aggiunti gli interventi e le responsabilità delle regioni, delle province, dei consorzi di bonifica, ognuno con sue regole e procedure.

«C’è un enorme freno, e lo abbiamo visto negli ultimi mesi», continua Gargano. «In Italia c’è una grande cultura dell’emergenza, straordinariamente più efficiente rispetto alla cultura della prevenzione. Ora è evidente che l’emergenza siccità è diventata strutturale». L’obiettivo iniziale era di concludere la fase di progettazione entro il 2025, assegnare gli appalti entro il 2026 e fare entrare in funzione gli invasi entro il 2030, ma i piani sono già saltati.

Mercoledì 1 marzo è in programma il primo incontro tra diversi ministeri per capire come affrontare l’emergenza siccità e risolvere i conflitti di competenze evidenti. Si parlerà anche del piano laghetti. Nei giorni scorsi il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha detto che tra le altre cose potrebbe essere nominato un commissario speciale sulla siccità, una figura che «permetta di superare la troppa burocrazia, poiché troppe scrivanie producono un rallentamento del tempo davanti a un problema che va affrontato subito».

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Nonostante la necessità di costruire nuovi invasi sia condivisa da gestori dei consorzi e amministratori pubblici, il piano laghetti ha ricevuto anche alcune critiche. L’associazione ambientalista WWF ha scritto che «il proliferare di nuovi invasi e programmi d’intervento straordinari, dettati dall’emergenza, rischia di peggiorare la situazione aggravando il bilancio idrico complessivo degli ecosistemi e delle falde».

La stessa posizione è sostenuta dal CIRF, Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, un’associazione fondata da un gruppo di tecnici e professionisti interessati ad alimentare il dibattito sulla gestione sostenibile dei corsi d’acqua. In una nota pubblicata lo scorso anno, il CIRF sostiene che la costruzione degli invasi comprometta gli habitat naturali con effetti negativi per le piante e gli animali e che molta dell’acqua raccolta si disperda per effetto dell’evaporazione. Una delle alternative, sostiene l’associazione, è privilegiare coltivazioni che necessitano di meno acqua.

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