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  • Giovedì 2 febbraio 2023

I movimenti anarchici in Italia

Sono tanti, sono diversi e spesso in conflitto tra loro: ecco perché parlare genericamente di "anarchici" non funziona

Scritta a Torino, 10 gennaio 2023 (ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
Scritta a Torino, 10 gennaio 2023 (ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
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Diversi movimenti, associazioni e organizzazioni stanno protestando da settimane a sostegno di Alfredo Cospito, detenuto in carcere, e contro il regime carcerario del 41-bis a cui, oltre a Cospito (in sciopero della fame dal 19 ottobre), sono sottoposte in Italia circa 750 persone detenute. Le proteste principali, i presidi fuori dalle carceri e i cortei che si stanno tenendo in decine di città italiane, ma non solo, sono stati organizzati soprattutto dai movimenti anarchici, a uno dei quali Cospito appartiene. In alcuni casi sono finiti anche sulle prime pagine dei giornali italiani, che negli ultimi giorni hanno usato titoli molto generici per riferirsi ai movimenti stessi: «Il ritorno degli anarchici», scriveva ad esempio Repubblica domenica 29 gennaio parlando degli atti vandalici compiuti contro alcune sedi diplomatiche italiane.

Il movimento anarchico viene raccontato quasi sempre con semplificata omogeneità e spesso con molti fraintendimenti e automatismi. L’anarchismo è invece molto complesso, come pensiero e come espressioni politiche. Nel corso del tempo si è tradotto in correnti di cui non è facile dar conto: sia perché non si possono ricondurre all’attività di un solo teorico, sia perché le sue manifestazioni non sono fisse e uniche, anzi. I movimenti anarchici hanno avuto modalità, pratiche e forme differenti tra loro, articolate, e persino conflittuali tanto che, per darne conto in modo più realistico, sarebbe innanzitutto corretto parlarne al plurale.

– Leggi anche: Come si vive al 41-bis

La parola “anarchia” deriva dal greco ἀναρχία (ἀν, che significa “assenza” e ἀρχή, che significa “governo”). Letteralmente, dunque, “anarchia” significa «assenza di governo». L’anarchia si basa su un’opposizione irriducibile a tutte le forme di controllo imposte dall’alto sulla società e gli individui: gli stati, i governi, i loro apparati, gli organi di polizia, gli eserciti, considerati tutti strumenti di oppressione.

L’anarchismo, cioè la teoria politica che ha come obiettivo l’anarchia, si oppone dunque a tutte le forme di organizzazione gerarchica e autoritaria, non solo politica ma anche economica e sociale. Allo stato e ai suoi apparati, ma anche al capitalismo e a tutte le forme di autorità religiosa.

Anarchia, però, non è sinonimo di caos, disordine, assenza di regole, norme o principi, come spesso si pensa e si dice in uno sbrigativo linguaggio comune. «Siccome fu pensato che un governo era necessario e che senza governo ci sarebbe solo disordine e confusione, era naturale e logico che l’anarchia, che vuol dire assenza di governo, suonasse come assenza d’ordine» scrisse ad esempio Errico Malatesta, l’anarchico italiano forse più importante della storia dell’anarchismo che visse tra Ottocento e Novecento. Se da una parte, dunque, l’anarchismo analizza e critica il sistema esistente, dall’altra offre una visione alternativa e possibile: che trovò applicazione storica nella Comune di Parigi del 1871, nell’autogestione di Barcellona del 1936 o in altre esperienze più limitate e ristrette.

L’obiettivo della teoria anarchica è la nascita di una società di persone libere e uguali, una società in cui siano assenti gerarchie politiche, economiche e sociali e in cui l’assenza di autorità sia però una possibile e nuova forma di sistema sociale.

In questo sistema le relazioni sono anti-autoritarie, basate cioè su rapporti di parità e orizzontalità, e la partecipazione è diretta. L’assetto della società anarchica dovrebbe essere dato dall’associazione libera tra persone: un’associazione autogestita e fondata sul mutuo appoggio. Questa modalità di organizzazione rappresentata da una presa in carico e da una responsabilizzazione collettiva permetterebbe di sostituire lo stato e tutta la sua macchina amministrativa. Ma non si tratterebbe di un modello politico simile a quello del federalismo praticato già oggi da molti stati: il federalismo e le libere associazioni anarchiche non rappresentano una semplice tecnica di governo, ma un principio di organizzazione sociale in grado di occuparsi di tutti gli aspetti della vita.

Pur avendo dei pensatori di riferimento (il filosofo tedesco Johann Kaspar Schmidt, conosciuto come Max Stirner, il francese Pierre-Joseph Proudhon, il russo Bakunin e poi Pëtr Kropotkin e l’italiano Malatesta), l’anarchismo non deriva da riflessioni astratte di alcuni intellettuali o filosofi, ma è strettamente legato alla pratica e all’azione diretta: un’azione non delegata ad altri, intesa come iniziativa individuale o collettiva, autogestita e attuata in risposta puntuale a situazioni concrete di oppressione. Le azioni dirette possono concretizzarsi in scioperi, sabotaggi, nella resistenza non violenta, in occupazione dei luoghi di lavoro o di altri spazi, in boicottaggi. Ma anche nella lotta armata, come nel caso di gambizzazioni o di attentati esplosivi.

L’anarchismo non è un’ideologia, non c’è una linea dettata da un’autorità centrale, e non è nemmeno una teoria o un’indagine scientifica della realtà sociale, come ad esempio il socialismo scientifico fondato da Marx ed Engels. Infine non è dogmatico e non stabilisce i propri metodi di lotta: persegue un fine, ma non determina il mezzo per il suo raggiungimento.

La storia dei movimenti anarchici ha percorso tutta la storia del Novecento, sebbene i fatti storicamente più conosciuti (o sui quali la narrazione si è appiattita) abbiano a che fare con il protagonismo di singoli individui e con loro precise azioni dirette: attentati contro re, altre autorità o istituzioni.

Uno dei casi più storicamente noti è quello di Gaetano Bresci, che la sera del 29 luglio del 1900 uccise a Monza con tre colpi di pistola il re d’Italia Umberto I di Savoia; o di Gino Lucetti, che nel 1926 attentò alla vita di Benito Mussolini. O ancora: la bomba fatta scoppiare nel 1921 nel teatro dell’hotel Diana, a Milano. Ma a dare notorietà pubblica ai partecipanti dei movimenti anarchici sono state anche le accuse artefatte contro Pietro Valpreda per la strage di piazza Fontana a Milano nel 1969 e le vicende che portarono alla morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli negli uffici della questura di Milano. O infine, in anni più recenti, l’arresto avvenuto a Torino nel 1998 di Edoardo Massari, Maria Soledad Rosas e Silvano Pelissero (conosciuti come Sole, Baleno e Pelissero), tutti accusati ingiustamente di banda armata e associazione eversiva, in una vicenda che portò poi al suicidio dei primi due.

Molto meno si conosce la gran parte della storia dei movimenti anarchici: le loro ramificazioni e differenze, il ruolo che nel periodo precedente la Prima guerra mondiale  ebbero nell’opporsi all’intervento militare italiano, o quello negli scioperi sindacali e nelle occupazioni delle fabbriche all’inizio del Novecento o, ancora, la parte che ebbero gli anarchici nella resistenza antifascista. Qui c’è un elenco di testi liberamente scaricabili che possono aiutare a capire il pensiero anarchico e a conoscerne la storia.

Per comprendere oggi che cosa sono i movimenti anarchici vanno tenute presenti le principali tendenze o correnti che storicamente li hanno attraversati e che, in modo assolutamente sommario, si possono distinguere in base ai fini o in base ai mezzi utilizzati.

In base ai mezzi, da una parte ci sono i movimenti anarchici che riconoscono una qualche forma di organizzazione interna e dall’altra chi invece la contesta, ritenendo che qualsiasi forma di organizzazione sia nemica della libertà d’azione. Tra le due istanze, si inserisce poi l’informalità cosiddetta, che potrebbe essere definita come il tentativo di superare questa dicotomia fra organizzatori e anti-organizzatori.

Mario Di Vito, giornalista del Manifesto, spiega che «i movimenti anarchici in Italia, oggi, sono un universo molto composito: c’è un po’ di tutto in mezzo». C’è, innanzitutto, la Federazione Anarchica Italiana (FAI), la più importante organizzazione anarchica esistente oggi in Italia, nata nel 1945. Alla FAI possono aderire gruppi o singoli individui. Chi vi aderisce si riconosce in un patto associativo, che regola la vita della federazione, e in un Programma anarchico che ne sintetizza il progetto politico e che fu proposto, anni prima, da Errico Malatesta. La FAI organizza congressi e convegni per definire le proprie linee politiche, ha degli organi che coordinano le relazioni tra chi aderisce, è presente con gruppi e federazioni locali in varie città italiane, ha un settimanale (Umanità Nova) e a livello internazionale, dalla fine degli anni Sessanta, è tra le fondatrici della International of Anarchist Federations (IAF-IFA), che raccoglie le principali federazioni anarchiche del mondo. «La FAI italiana» dice Di Vito «ha una sorta di struttura formale, molto simile a quella di tante organizzazioni politiche che conosciamo».

Oltre alla FAI, prosegue Di Vito, «c’è poi una galassia enorme di collettivi vari e sparsi, che possono essere affiliati tra loro, composti da singoli individui o da poche persone che possono vivere in comuni e dedicarsi all’agricoltura biologica o in luoghi occupati». E c’è infine la cosiddetta Federazione Anarchica Informale di cui si parla molto in questo periodo, perché è quella a cui appartiene Alfredo Cospito.

La FAInformale nacque alla fine del 2003 con la rivendicazione dell’esplosione avvenuta nei pressi della casa dell’allora presidente della Commissione Europea Romano Prodi, a Bologna. «Quell’azione fu rivendicata con una sigla mai apparsa fino ad allora e che come dice il nome era “informale”: faceva cioè della non affiliazione diretta il proprio tratto distintivo», dice Di Vito.

La teoria dell’informalità è stata sviluppata da Alfredo Maria Bonanno, anarchico catanese nato nel 1937: l’informalità, spiega Di Vito, «si basa su quelli che Bonanno chiama “gruppi di affinità”, persone, collettivi o singoli che condividono uno stesso obiettivo e che si muovono di conseguenza attraverso azioni dirette». Nel suo libro Affinità e organizzazione informale, Bonanno scrive che «(…) l’organizzazione reale, la capacità effettiva (e non fittizia) di agire insieme, cioè di trovarsi, studiare un approfondimento analitico e passare all’azione, è in relazione all’affinità raggiunta e non ha nulla a che fare con le sigle, i programmi, le piattaforme, le bandiere e i partiti più o meno camuffati. L’organizzazione informale anarchica è quindi un’organizzazione specifica che si raccoglie intorno ad affinità comuni. Queste non possono essere identiche per tutti, ma i diversi compagni avranno infinite sfumature di affinità, tanto più varie quanto più ampio sarà lo sforzo di approfondimento analitico che si è raggiunto».

Proprio per la struttura che li caratterizza, i “gruppi di affinità” sono considerati dagli informali non solo più rappresentativi della libertà dell’anarchismo, ma anche più sicuri, più difficili da scoprire e molto efficaci. All’interno della corrente informale, le persone non si conoscono quasi mai tra loro (semmai si riconoscono attraverso le azioni compiute), non c’è mai un momento politicamente collettivo in cui si formalizzano le istanze e le pratiche della lotta: «E se ci sono» prosegue Di Vito «si tratta di incontri clandestini e tra poche persone che si ritrovano per organizzare azioni dirette. A livello giudiziario è dunque complicato teorizzare e dimostrare l’associazione a delinquere per finalità sovversiva: si tratta di persone che nemmeno si conoscono tra loro e che tra loro non sono affiliate». Per questo è implausibile definire Cospito «leader» degli anarchici, come hanno fatto in queste settimane diversi giornali o politici.

Da un punto di vista “teorico” il pensiero della corrente informale è condiviso con il pensiero anarchico principale. La differenza, dice Di Vito, «è il ricorso estremo, continuo e reiterato all’azione diretta: non si fanno cioè campagne politiche che non prevedano un’azione diretta e non si organizzano mai manifestazioni o uscite pubbliche».

L’azione diretta prevede anche la violenza e la lotta armata. Un celebre libro di Bonanno degli anni Settanta, che faceva riferimento all’attentato contro Indro Montanelli da parte delle Brigate Rosse e intitolato La Gioia Armata, iniziava così: «Ma perché questi benedetti ragazzi sparano alle gambe di Montanelli? Non sarebbe stato meglio sparargli in bocca? Certo che sarebbe stato meglio. Ma sarebbe stato anche più pesante. Più vendicativo e più cupo».

La differenza delle pratiche, la radicalità delle azioni e il ricorso alla violenza sono motivo di grande divisione all’interno dei movimenti anarchici, soprattutto tra la FAI e gli informali. Dopo l’attacco a Prodi del 2003 e la nascita della federazione degli informali, la FAI condannò l’azione. Scrisse un comunicato in cui rivendicava il portato storico della propria organizzazione anarchica come non informale perché faceva «della chiarezza e della collegialità dei mandati il suo atto di garanzia di un metodo libertario ed egualitario di prendere le decisioni». E, soprattutto, ribadiva «la propria condanna di bombe, pacchi bomba e ordigni, che possono colpire indiscriminatamente, e comunque paiono più che altro funzionali alle logiche della provocazione e della criminalizzazione mediatica del dissenso».

«Gli strumenti di lotta delle anarchiche e degli anarchici federati», diceva sempre il comunicato della FAI, «sono dispiegati nelle piazze, nel sociale, nel sindacalismo autogestionario e di base, nei movimenti, nelle decine di città in cui gestiamo circoli pubblici, nella aperta opposizione alle logiche del dominio e dei terrorismi di Stato, per la costruzione di una società di liberi ed eguali».

Da lì in poi la FAI ha scritto più volte e in maniera molto dura come usare il termine “anarchici” per parlare degli informali fosse a suo dire sbagliato perché la generalizzazione coinvolgeva persone che con quelle pratiche non volevano avere a che fare, e verso le quali sono sempre stati molto critici. «Di fatto, la FAI ritiene la FAInformale un gruppo di provocatori che nuoce alla causa anarchica», dice Di Vito.

Tutto il fenomeno dell’informalità fin dalla sua nascita «è ampiamente studiato dai nostri apparati di sicurezza» conclude Di Vito «che hanno un po’ tracciato sia cosa sono gli informali sia chi sono le ali estreme del movimento anarchico. Sono convinto che li conoscano per nome e cognome, anche perché si parla di pochissime persone».

– Leggi anche: Il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, dall’inizio