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  • Martedì 31 gennaio 2023

I momenti del poligono, nel biathlon

Cosa succede nel corpo e nella testa di un atleta ogni volta che arriva a quel punto della gara, raccontato passo a passo

di Gabriele Gargantini

(Alexander Hassenstein/Getty Images)
(Alexander Hassenstein/Getty Images)
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Il biathlon è l’unione di due cose che non c’entrano nulla tra loro: lo sci di fondo e il tiro a segno. Una è prevalentemente fisica, l’altra quasi solo mentale. Da un lato la parte tecnica e muscolare dello sci, che porta fiato e cuore vicino ai loro limiti; dall’altro il tiro con la carabina, che richiederebbe pace interiore, calma assoluta, immobilità, assenza di rumori o distrazioni, battiti, respiro e muscoli al massimo della loro rilassatezza.

Nell’unione e nella transizione tra lo sforzo richiesto dal fondo e la concentrazione necessaria al poligono sta gran parte di quel che rende il biathlon peculiare e di successo. Anche perché, quando al poligono si sbaglia, per ogni volta che si sbaglia – mentre tutto, nel proprio corpo, sembra predisposto perché si verifichi un errore – c’è una penalità, un giro di punizione che ogni biatleta si augura di non dover fare, ma all’interno del quale molti finiscono, anche più volte nel corso della stessa gara.

Il giro di penalità e, a destra, il poligono di Anterselva (Millo Moravski/Agence Zoom/Getty Images)

Nonostante l’essenzialità e l’immediatezza del biathlon, in cui è molto semplice capire chi sbaglia al poligono e cosa comporti quello sbaglio, da semplici spettatori risulta più complicato capire tutto quello che succede, nel corpo e nella testa dei biatleti, in quegli attimi prima dei tiri, quando si sta al poligono con cinque bersagli da mirare e quando il poligono ce lo si lascia alle spalle, se possibile senza giro di punizione (che comporta una perdita di circa mezzo minuto).

Ogni biatleta, in ogni gara, finisce almeno due volte al poligono, la metà delle volte per tiri da terra e l’altra metà per tiri in piedi. Ogni volta con un fucile calibro 22 tra le mani e, a cinquanta metri, i cinque bersagli da centrare: se è in piedi, hanno un diametro di 11,5 centimetri; se è da terra sono grandi meno della metà, quanto una pallina da golf.

(AP Photo/Christopher Lenney)

«Ogni tiro ti può regalare grande gioia o immensa frustrazione» spiega Tommaso Giacomel, biatleta trentino di 22 anni, miglior italiano nella classifica maschile di Coppa del Mondo, quest’anno stradominata dalla Norvegia e in particolare da Johannes Boe, che spesso non sbaglia nemmeno un colpo e che comunque scia così bene da riuscire a vincere anche con tre errori al poligono in una sola gara, cosa piuttosto inconsueta.

«È difficile da spiegare, perché sparare è facile ma anche difficilissimo», dice Giacomel di quando in gara arriva il poligono: «devi solo isolarti e stare in quel metro di mondo».

Anzitutto, nella grande maggioranza dei casi, se si arriva a un poligono con un paio di sci ai piedi è perché si è, o al massimo si vuole diventare, biatleti. Sebbene sia di successo nel suo seguito, non è infatti uno sport a cui è facile avvicinarsi, anche solo per questioni logistiche. Di norma, si arriva al biathlon da sciatori di fondo: è possibile, a determinate condizioni, fare di un fondista un tiratore, mentre è quasi impossibile trasformare un tiratore in un fondista.

Lisa Vittozzi, la miglior atleta italiana dopo Dorothea Wierer, racconta di essere arrivata allo “scia e spara” intorno ai tredici anni, dopo aver fatto calcio, nuoto, arrampicata, danza, discesa (rompendosi tibia e perone) e infine sci di fondo.

Qualcuno arriva al biathlon dopo anni di carriera ai vertici dello sci di fondo, qualcun altro lo sceglie poco dopo aver messo gli sci ai piedi. È il caso di Giacomel, che ricorda di aver iniziato da giovanissimo, «con fucili ad aria compressa e bersagli a 10 metri», nonostante le iniziali resistenze del padre, ex fondista, il cui desiderio era «che i figli non facessero la sua stessa fatica». Eppure, dice Giacomel, «a me è sempre piaciuto un sacco far fatica»; cosa a cui decise di inframezzare il tiro con la carabina.

Per chi fa biathlon gli allenamenti cominciano in primavera, qualche settimana dopo la fine delle gare, e ovviamente prevedono l’alternanza e l’integrazione tra il fondo e il tiro.

Si inizia a fine aprile, ha raccontato Wierer: «Con allenamenti senza sci fino a novembre, per poi riprendere sulle nevi del Nord Europa. Durante la preparazione estiva-autunnale ci sono sessioni di allenamento con corsa, bici, molta palestra e tantissimo skiroll, lo sci a rotelle. Senza dimenticare la parte quotidiana dedicata al tiro».

Uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista accademica Frontiers in Physiology (il biathlon, per certe sue particolarità, è al centro di decine di studi di questo genere) stimò che i migliori biatleti arrivano ad accumulare ogni anno quasi mille ore di allenamento fisico, cui si sommano, tra gare e allenamenti, non meno di 20mila colpi sparati.

Poi arrivano le gare, in cui lo sci è tutt’altro che secondario. Parte delle attività dell’IBU, l’ente internazionale che ne cura gli interessi, sta infatti nel garantire che il biathlon mantenga il suo equilibrio, senza che l’efficacia al tiro finisca per prevaricare sul fondo. Tra curve, discese, salite e cambi di ritmo, i biatleti arrivano in genere vicini al massimo delle loro possibilità cardiache e polmonari, spesso con valori pari a quelli dei migliori atleti di altre attività unicamente di endurance. Il tutto con in spalla il peso e l’ingombro di tre chili e mezzo di carabina e con in testa il costante pensiero del poligono.

I biatleti raccontano che al poligono ci si inizia a preparare concretamente già alcuni secondi prima di arrivarci: per quanto possibile si rallenta un poco, si cerca di far scendere le pulsazioni (che possono essere anche più di tre al secondo), si riprende un po’ fiato e ci si prepara a eseguire la coreografia di gesti e movimenti volti a farsi trovare pronti per la piazzola di tiro, con la carabina tra le mani e i caricatori già inseriti.

Prima di ogni gara, comunque, i biatleti già ci sono passati dalla piazzola di tiro: lo fanno circa un’ora prima della partenza, per la fase nota come azzeramento. È una fase imprescindibile, che serve a tarare e calibrare nel miglior modo possibile le carabine in base alle condizioni di quel determinato poligono, a partire dal vento.

(AP Photo/Gregorio Borgia)

L’azzeramento serve a capire come e quanto spostare le tacche di mira di ogni fucile, le quali aiutano a spostare la diottra, una delle parti del fucile dentro la quale si guarda per traguardare il tiro, cioè per individuare una linea di mira verso i bersagli da colpire.

(Patrick Smith/Getty Images)

Ai poligoni di tiro, alle spalle dei biatleti ci sono allenatori e allenatrici che osservano i colpi con un cannocchiale per poi comunicare ai biatleti, in vista delle eventuali successive sessioni di tiro, se, come e di quanto devono sistemare i tiri successivi.

(Joel Marklund/Bildbyran via ZUMA Press)

Ogni volta, prima che inizino le gare, i fucili (o carabine) passano tutti da un controllo in cui si verifica il loro peso e il fatto che il grilletto resista a una determinata pressione, per evitare che possano partire colpi quando non dovrebbero. In generale, c’è una costante e comprensibilmente grande attenzione affinché i fucili siano sempre scarichi fuori dai poligoni e sempre rivolti verso i bersagli.

A proposito, i fucili (composti da due parti principali, una in metallo e l’altra in legno) sono regolarmente testati e dopo qualche anno sempre sostituiti, oltre che puliti dagli atleti in modo minuzioso. Un buon fucile costa non meno di cinquemila euro e per chi fa biathlon il fucile è un oggetto particolarmente personale, da tutti i punti di vista.

«Il fucile che ho io va bene solo ed esclusivamente a me», dice Giacomel. «È fatto per la grandezza delle mie mani, in base alla lunghezza delle mie braccia, secondo la mia altezza, per quanto è grosso il mio torace, per come è ritagliato il mio viso e per il modo in cui ci appoggio sopra la guancia per vedere il tunnel di luce» che porta l’occhio verso il bersaglio e che, se il fucile è quello giusto, è «un cerchio perfetto».

Tommaso Giacomel (Alexander Hassenstein/Getty Images)

Per il dettaglio e la cura con cui se ne parla, sembra quasi di parlare di liuteria: «Il mio lo ha fatto un norvegese e poi io mi sono fatto da solo qualche modifica, un po’ di fine tuning», dice Giacomel, secondo cui si tratta a tutti gli effetti di «pezzi d’arte».

«Possono rompere tutti gli sci che vuoi, ma guai a chi tocca loro il fucile» dice un commentatore parlando dei biatleti, i quali, interpellati dall’IBU per sapere se avessero dato un nome ai loro fucili, hanno in genere risposto di non averlo fatto. Qualcuno dice di vedere il suo fucile, contestualmente alle gare, come un’estensione del proprio corpo; qualcun altro ne parla come di un semplice strumento di lavoro, tanto quanto gli sci.

Fatta eccezione per le Olimpiadi, dove i fucili sono conservati tutti insieme dall’organizzazione, durante l’anno ogni atleta è responsabile e proprietario del suo: se lo tiene a casa, lo porta alle gare e dopo averlo usato lo pulisce e lo mette in sicurezza.

Dopo l’azzeramento e dopo un giro di pista sugli sci di fondo, i biatleti arrivano insomma al poligono, nella maggior parte dei casi accompagnati dal rumoreggiare del pubblico sugli spalti. In genere, quantomeno per l’arrivo di chi è in testa, il pubblico tende a silenziarsi mentre gli atleti prendono posto in piazzola, per poi accompagnare i bersagli colpiti o mancati con le conseguenti reazioni.

È una cosa che varia a seconda di atleti e contesti, ma in genere il tempo al poligono è inferiore al minuto, un tempo che include la preparazione iniziale e l’uscita (c’è sempre qualcuno che prova a studiare nuovi approcci per guadagnare qualche decimo di secondo) e ovviamente i cinque tiri verso i bersagli, in direzione dei quali i colpi viaggiano a oltre 300 metri al secondo, e che diventano bianchi se vengono colpiti.

Il biathlon, si sa, sono due sport in uno; per certi versi però sono perlomeno due e mezzo. Seppur dalla stessa distanza, il tiro a terra e quello in piedi sono infatti parecchio diversi tra loro: quello in piedi, con un bersaglio più grande, ma anche con il corpo meno stabile, è in genere descritto come più istintivo. Richiede invece più costruzione e preparazione quello da terra, dove tra un colpo e l’altro si cerca, dopo aver ripreso fiato e abbassato per quanto possibile i battiti (che restano comunque piuttosto alti), di fare un respiro, sparando quindi in una sorta di apnea e immobilità.

In entrambi i casi è comunque questione di equilibrio tra controllo e velocità. Pochi secondi prima si stava pensando solo a sciare e poi ci si trova lì, a ripensare ai colpi precedenti, a qual è, tra le tante disponibili, la piazzola di tiro verso cui dirigersi, al vento che c’era e che ci sarà, a come e quanto controllare il proprio corpo e a quanto rischiare ogni colpo, a come bilanciare la necessità di isolarsi e quella diametralmente opposta di «aprire i sensi» in vista dei tiri.

Qualche biatleta parla, per i momenti al poligono, di “modalità tunnel” in cui tutto quello che c’è attorno sparisce; molti ne parlano come di una attività profondamente mentale, in cui è importante la mindfulness. «Io sparo talmente veloce che tra un colpo e l’altro non ho neanche il tempo di pensare» dice Giacomel «ed è un bene, perché in quei momenti più penso e più mi si offusca la mente, più il gesto mi riesce difficile».

Al poligono, per un biatleta, è possibile capire dal rumore la riuscita o meno dei colpi di chi sta nelle vicine piazzole. «È però difficile fare calcoli in uno sport così imprevedibile, puoi solo controllare quello che fai tu» dice Giacomel.

(Clive Rose/Getty Images)

Giuseppe Piller Cottrer – voce tecnica della Rai, allenatore ed ex biatleta – dice che quando arriva il poligono «devi essere capace di entrare in una bolla, abbandonare l’energia che avevi sul percorso e sostituirla con l’autocontrollo: in pista devi avere le gambe che vanno più della tua testa, nel momento in cui ti trovi lì al poligono invece è l’opposto».

Al netto di qualche evoluzione meccanica o tecnologica, nel biathlon, carabine, munizioni e distanza dei bersagli sono uguali da praticamente mezzo secolo. Viene quindi da chiedersi com’è che i biatleti, anche i migliori, continuano talvolta a sbagliare.

Giacomel spiega che un fattore determinante è l’adrenalina della gara, con la tensione che si porta dietro, e le gambe e le braccia che, specie al quarto e ultimo poligono delle gare più lunghe, tremano per la fatica e la stanchezza, e dove nemmeno le dita hanno sul grilletto la sensibilità che avrebbero a riposo e al caldo. «In allenamento» dice «le sagome sono sempre pulite», con i colpi che arrivano cioè dove devono arrivare.

Piller Cottrer parla inoltre di come in questi anni siano notevolmente aumentate sia la potenza espressa sugli sci che la velocità con cui vengono eseguiti i colpi al poligono. Guardando video anche solo di un decennio fa è evidente quanto, già solo in entrata e uscita dalla piazzola, molte cose siano diventate parecchio più rapide ed efficienti. Inoltre, dice Piller Cottrer, «la differenza la fa chi riesce a trovare soluzioni e ricostruire il colpo» anche quando per qualche motivo finisce fuori ritmo. Allo stesso modo, spiega Piller Cottrer, è sempre più fondamentale «sapersi ripristinare» perché c’è quasi sempre «un altro colpo da fare subito dopo».

C’entra inoltre il fatto che, col tempo, e anche per ragioni televisive, le gare si sono accorciate, cosa che rende ancora più determinante ogni singolo errore. Per i migliori atleti di Coppa del Mondo le percentuali di colpi riusciti al poligono arrivano anche oltre il 90 per cento; vuol dire che nella maggior parte dei casi la differenza è minima.

Il tiro in sé, dice Giacomel, è comunque una cosa che si può imparare, su cui si può lavorare, in cui la barriera principale è mentale: «io non ho una grande dote naturale ma se ti fai il mazzo e continui a lavorarci magari non arrivi al livello del supertalento, ma diventerai un buon tiratore. Io adesso sto diventando un buon tiratore».

Fatta eccezione per certe gare più lunghe che prevedono una penalità in secondi (sessanta), gli atleti pagano i loro errori al poligono con altrettanti giri di penalità su un anello lungo 150 metri posto davanti alla tribuna principale e appena dopo il poligono. L’ex biatleta statunitense Tim Burke ne parlò come di “giro della vergogna”, come di una dolorosa ammenda fisica – che corrisponde a una perdita di tempo di circa mezzo minuto – da pagare davanti al pubblico, e aggiunse: «non esiste nello sport una sensazione migliore di quella che hai quando ci passi oltre».

Senz’altro, è qualcosa di psicologicamente pressante (come gran parte di quello che succede nel biathlon) e un modo sportivamente tremendo di pagare pegno vedendosi intanto superare da altri che hanno meno errori o nessun errore. «È un infausto fatto della vita che tutti accettano ma che nessuno ama», scrisse anni fa il New York Times, citando anche scaramanzie varie e tendenza di molti, anche in allenamento, a evitarlo.

Giacomel – che ricorda bene la volta in cui fece cinque errori su cinque («ancora andavo alle superiori») e a cui ancora bruciano i quattro su cinque che fece due anni fa ad Anterselva – ne parla come di un «purgatorio», ma aggiunge: «se ci finisci è perché te lo sei meritato».

Ora, a una settimana dall’ultima gara italiana di Anterselva, dopo tre settimane di gare e in vista dei Mondiali di febbraio a Oberhof, in Germania, Giacomel dice che «dopo un blocco così intenso e così mentalmente drenante, dove si spara quasi tutti i giorni» il fucile non lo ha preso in mano per una settimana. «Non sento di averne bisogno» spiega, e aggiunge: «magari sei stanco o svogliato, o magari c’è brutto tempo, e magari spari male e iniziano a venirti i fantasmi in testa, e più fai una cosa più si amplifica l’errore; non è che in 5 giorni ti dimentichi come sparare».

– Leggi anche: Il biathlon ha fatto centro