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  • Martedì 31 gennaio 2023

Gli spazi approssimativi delle città

Sono i "non-luoghi" senza scopo tra case, negozi e strade da cui comincia la riflessione sui posti in cui viviamo di "Abitare il vortice" di Bertram Niessen

Una strada di Milano
Una strada di Milano (ANSA/ANDREA FASANI)
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La pandemia da coronavirus ha portato tra le altre cose a riflessioni sul modo in cui si sta nelle città e a come sono costruite, ma anche a ripensamenti sulla scelta di viverci, che per qualche tempo hanno trovato molto spazio sui giornali e nelle discussioni online. Poi il momento è passato e le cose sono più o meno tornate a com’erano prima, ma chi studia le città ha continuato a mettere in discussione quello che si dà per scontato sugli spazi urbani e come si usano. Bertram Niessen, ricercatore e presidente dell’associazione italiana cheFare, che si occupa di progetti di sviluppo nelle città, lo ha fatto nel suo nuovo libro Abitare il vortice (Utet), appena uscito, che inizia dai “nonluoghi” che riempiono soprattutto le zone più periferiche.

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Sono cresciuto in una cittadina remota della Toscana, tra gli anni ottanta e novanta. “Remota” vuol dire che per arrivarci da fuori serviva un sacco di tempo. Perché non c’era l’autostrada, e l’unico modo per raggiungerla era passare un sacco di tempo su strade a due corsie. E anche perché di treni ne passavano proprio pochi. E mai di quelli superveloci e diretti, piuttosto di quelli che fanno tutti i paesini, uno per uno. Ma “remota” vuol dire anche che le persone all’epoca ne avevano un’immagine in qualche modo sfocata, approssimativa. Non importa se ci abitavi o se ci passavi; quando cercavi di pensarla come città, ti faceva un po’ l’effetto dei miraggi della pianura maremmana, sotto il sole torrido d’estate. Le chiamano fatemorgane: il caldo cambia la rifrazione della luce nell’aria, le cose lontane sembrano vicine, si allungano, si ribaltano. I bordi si consumano e cambiano.

Tutta Grosseto era un po’ una fatamorgana. L’immagine sembrava chiara, e poi all’improvviso si sfocava, perdeva di nitidezza e si sfrangiava. Il centro era tutto sommato incontestabile, come accade spesso nelle città italiane. Una manciata di chiese medioevali, le abitazioni stipate nelle vie più antiche, strette e lunghe. Il centro era incorniciato dal perimetro delle mura costruite dai Medici, dove c’era pure un castelletto. Un cassero militare, per la verità. Tutto ruotava attorno a una piazza del Duomo e a un corso che si riempiva religiosamente per lo struscio della sera. Sulle mura lunghissime e semiabbandonate, ci si andava a fare educazione fisica, ci si imboscavano le coppie e ci si faceva le canne o le pere. Subito fuori dalle mura iniziavano le zone costruite con la bonifica di metà Ottocento, quando i canali avevano iniziato a spurgare la terra e la malaria. Un sacco di cose, in realtà, erano state ricostruite dopo le alluvioni degli anni sessanta, che si erano portate via le fattorie trascinando per le strade le carcasse delle mucche.

E poi c’erano i nuovi quartieri residenziali. Tanta edilizia residenziale pubblica, per dare casa a quelli rimasti senza a causa delle alluvioni ma anche a chi si trasferiva in città dalla campagna. Tanta al punto che due spicchi abbondanti della periferia erano chiamati con i nomi della legge del ’62 “per l’edilizia economica e popolare”: 167 Nord e 167 Sud. E poi ancora i capannoni delle zone industriali, già verso la campagna.

Attraversando la città a piedi ti rendevi conto che tutto era cucito in un modo un po’ storto. Sfrangiato, per l’appunto. In quello che si poteva chiamare ancora centro, tutto era un po’ trascurato e scrostato – ho imparato poi negli anni dalle riviste di design che si dice “delabré”. I marciapiedi e le strade erano crepati dalle radici degli alberi, gli intonaci gonfi di umido facevano i bozzi e venivano giù. Sparsi, intorno alla ferrovia e vicino all’Aurelia – la SS1 che tagliava la città in due, in pratica una coda infinita di camion – una serie di innesti industriali da zona rurale, i silos, i binari morti dove portavano a lavare i treni. Zaffate continue di odori che si mescolavano, la morchia e il grano, il cherosene e gli ortaggi marci.

Uscendo dalla città, tutto diventava sempre meno chiaro, si moltiplicavano gli appezzamenti di verde che non si capiva bene a cosa servissero e di chi fossero. Tanti condomini erano ancora nuovi nuovi, tirati su alla svelta in mezzo ai pini e agli eucalipti, il terreno ancora paludoso, e quando pioveva venivano fuori dei laghetti tra le stradine. Lì, le pinete urbane tra le fontane brutaliste di cemento armato si allungavano verso gli uliveti e le baracche degli orti si alternavano agli sfasciacarrozze. Stradine dall’asfalto sbriciolato finivano improvvisamente nei campi o si trasformavano in strade sterrate coperte di polvere per perdersi all’orizzonte, in mezzo alle fatemorgane. Le cataste di masserizie erano diventate collinette di papaveri e tarassaco, in mezzo agli orti che si allungavano verso radi capannoni e filari d’alberi.

Quello che confondeva di più era proprio l’alternarsi di schemi dalla regolarità ipnotica – i filari infiniti di pini e cipressi, i fossi ai bordi di campi sterminati da latifondo – e cose completamente a caso, fuori posto – case abbandonate, distributori di carburante agricolo, gruppi di baracche colorate. Luoghi imprevisti dove non potevi dare mai troppo per scontato cosa avresti trovato, in che condizioni e popolato da chi, persone, animali o piante.

Adesso che la nostalgia permette il lusso di sfumare i ricordi dell’infanzia e della prima adolescenza, più dei cortili, delle strade e dei parchi, ricordo con affetto soprattutto il disordine e la mancanza di disciplina di quegli spazi approssimativi. Il fatto di non poter trovare una regola ai pieni e ai vuoti, al finito e al non finito. In qualche modo, l’unico modo per poter sapere cosa c’era al di là di un muro, oltre la curva, dietro il cespuglio di rovi era mettersi in moto e andare a vedere. (…)

A diciott’anni, seguendo un pezzo della mia famiglia, mi sono trasferito in un paese nell’hinterland di Milano. Un’esperienza profondamente straniante, non tanto dal punto di vista culturale quanto da quello spaziale. Perché lì il tessuto urbano ti faceva andare completamente fuori di testa.

Non era la prima zona suburbana che vedevo: i miei nonni in Germania vivevano in una città enorme ricostruita dopo la seconda guerra mondiale, che era fatta quasi esclusivamente da una sequela di casette con nani nei giardini e tende di pizzo alle finestre. Nei quartieri-dormitorio in cui mi ero ritrovato c’era però qualcosa che mi confondeva in un modo profondo e radicale. Più dell’odore acre che usciva dalle ciminiere delle fabbrichette di famiglia, più del clima che alternava pioggia e nebbia, quello che proprio non riuscivo a capire era dove iniziasse e finisse lo spazio delle cose intorno a me. Quali erano i perimetri. I blocchi delle case popolari, i supermercati, i capannoni, le officine, i distributori, le ville del barocchetto lombardo, i bancomat. Tutto si affastellava e si susseguiva senza senso apparente lungo direttrici anonime e misteriose. Tangenziali, autostrade a otto corsie, massicciate della metropolitana che uscivano dal sottosuolo, binari dei treni, centrali elettriche e parcheggi della logistica.

Esisteva, da qualche parte, Milano. Attraverso una serie infinita di cambi, attese nei parcheggi dei mezzi pubblici o passaggi in macchina ci si poteva arrivare. C’era evidentemente una qualche logica di conseguenza spaziale tra il posto in cui vivevo e la grande città, ma non riuscivo a farla mia in nessun modo. L’unica manifestazione tangibile di continuità erano i corpi delle persone che a orari cadenzati si stipavano nei vagoni della metropolitana, sugli autobus e sui tram. Quello che non capivo, allora, era che stavo cercando di trovare un modo per costruire un rapporto personale con una complessità dell’esperienza urbana che – sulla base di quello che era stata la mia vita fino a quel punto – mi sembrava completamente aliena.

Questo, ovviamente, perché ero convinto di sapere cosa fosse una città, mentre in realtà non ne avevo la più pallida idea. E quella forma particolare di spazio con la quale continuavo a scontrarmi era assolutamente urbana. Solo che non la capivo.

Ho iniziato a cambiare prospettiva quando mi sono imbattuto in un romanzo breve di James G. Ballard, L’isola di cemento. (…) Nel libro, in seguito a un incidente d’auto un architetto si ritrova prigioniero di un’isola spartitraffico, invisibile dall’esterno e impossibilitato a scalarne le pareti. Ferito e abbandonato, in smoking e con a disposizione solo delle bottiglie di champagne, il protagonista scopre di non essere solo e si ritrova impegnato in una guerra di logoramento psicanalitico con altri imprevedibili abitanti, che a differenza di lui sanno come entrare e uscire. L’isola di cemento tra le autostrade diviene allora qualcosa di più – e di altro – rispetto a uno spazio fisico. La sua natura è residuale, di scarto. È allo stesso tempo un luogo inabitabile e un trampolino verso le profondità oscure del sub-conscio, in un abbraccio di carne e cemento armato.

L’isola di cemento mi iniziò a una verità banale, ma come al solito un conto è quando le cose te le dicono e un altro è quando le senti. Su quelle pagine mi sono reso conto che anche i confini delle barriere suburbane che avevo di fronte erano attraversabili, bastava cercare, e camminare. Ho dovuto però reimparare a camminare, perché non puoi passeggiare tra gli scolmatori industriali e i cantieri autostradali come faresti tra gli orti e le piccole discariche abusive. Il trucco sta nell’identificare alcuni particolari tipi di soglie, di solito nascoste perché mimetizzate di proposito o trasfigurate dall’incuria e dall’abbandono. Sono buchi nei recinti, muri sfondati, sentieri dove l’erba è appena un po’ più consumata. A volte scalette che scendono giù da una massicciata o da un viadotto, come la porta di accesso all’altro mondo in 1q84 di Murakami. Se spesso sono vicoli ciechi – o luoghi abitati in modo temporaneo o permanente da gente che non ha necessariamente piacere che gli si entri in casa –, non di rado sono varchi dimensionali che ti permettono di muoverti a piedi tra aree urbane, assolutamente incongrue eppure incredibilmente vicine. Da un parco pubblico alla terra battuta sotto i pilastri della tangenziale, da una fila di villette a schiera al rudere di un’acciaieria.

Una volta compreso che era possibile oltrepassare quelle soglie, le cose hanno iniziato ad assumere una prospettiva diversa. Quello che mi era sembrato un guazzabuglio informe di ritagli urbani senza logica o prospettiva ha iniziato a trasformarsi nel panorama della città industriale in dissoluzione, in una concatenazione di spazi non determinati e porosi, aperti alla possibilità.

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