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  • Lunedì 30 gennaio 2023

L’omicidio di Gandhi, 75 anni fa

Il leader indiano fu ucciso a New Delhi dall'estremista indù Nathuram Godse, che lo accusava di avere posizioni troppo morbide verso i musulmani e il Pakistan

Gandhi nel 1946, in una foto di Margaret Bourke-White (ANSA)
Gandhi nel 1946, in una foto di Margaret Bourke-White (ANSA)
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Il 30 gennaio del 1948, 75 anni fa, un estremista indù uccise Mohandas Gandhi a New Delhi, in India. Erano circa le cinque di pomeriggio e Gandhi, uno dei più importanti leader del movimento per l’indipendenza dell’India, stava salendo la breve scalinata che conduce al giardino sul retro della Birla House, il luogo in cui abitò nei suoi ultimi anni e che oggi è un museo. Ad aspettarlo c’era un gruppo di persone per una preghiera insieme. Nathuram Godse, l’estremista che lo uccise, si fece avanti e sparò tre colpi: Gandhi fu ferito al petto e all’addome. Fu portato all’interno della casa, da cui poco dopo uscì un uomo annunciandone la morte.

Un memoriale nel punto in cui fu ucciso Gandhi (ANSA)

Già allora Gandhi era visto in tutto il mondo come un simbolo della resistenza non violenta. Aveva fatto parte fino al 1934 del Congresso nazionale indiano, il partito che aveva guidato la lotta per l’indipendenza dell’India dal Regno Unito e di cui era stato presidente fino al 1924. Nel 1942 aveva fondato un movimento che aveva lo stesso obiettivo, il movimento “Quit India”: l’indipendenza fu infine ottenuta nel 1947.

Al processo Godse disse di non aver avuto alcun «rancore privato» nei confronti di Gandhi, e di averlo ucciso a causa delle sue «provocazioni», che per oltre vent’anni avevano «esaurito la sua pazienza». Godse aveva fatto parte a lungo del RSS, gruppo nazionalista induista, e credeva che Gandhi avesse tradito gli induisti adottando un atteggiamento troppo conciliante e morbido nei confronti dei musulmani, permettendo per esempio al Pakistan (a stragrande maggioranza musulmana) di staccarsi dall’India (a stragrande maggioranza induista) nel 1947. 

Godse fu consegnato alla polizia dalle persone che si erano riunite per pregare alla Birla House. Fu arrestato, processato, condannato a morte: al termine di un processo molto rapido venne impiccato il 15 novembre del 1949 nella prigione di Ambala, nel nord dell’India, insieme al suo principale complice Narayan Apte. Altre sei persone furono condannate all’ergastolo, accusate di aver partecipato a vario titolo all’organizzazione dell’omicidio.

Nathuram Godse, al centro, durante il processo in cui fu accusato dell’omicidio di Gandhi, nel 1948 a Nuova Delhi (AP Photo)

Il piano per l’omicidio di Gandhi cominciò a essere messo a punto nel gennaio del 1948, quando Gandhi aveva appena iniziato uno sciopero della fame, l’ultimo di molti intrapresi durante la sua vita, e dopo che l’India britannica si era divisa, sancendo la nascita di India e Pakistan. Contro Gandhi furono organizzati due attentati: il primo, compiuto il 20 gennaio, non andò a buon fine; il secondo fu quello in cui venne ucciso.

In quel momento erano in corso violentissimi scontri tra musulmani, induisti e sikh, risultanti da grosse migrazioni da uno stato all’altro motivate anche dall’appartenenza religiosa. William Dalrymple, uno degli storici che nel tempo raccontarono quegli scontri, li descrisse come un «genocidio reciproco».

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Gandhi, 78enne, iniziò lo sciopero per fare pressioni sul governo indiano affinché creasse le condizioni per una convivenza pacifica tra induisti e musulmani: pose come condizione per interromperlo che venisse assicurata la libertà di culto e di circolazione dei musulmani sul territorio indiano. 

Gandhi chiese per esempio che venissero adottate misure perché potesse svolgersi pacificamente l’Urs, un partecipato festival religioso islamico che si tiene ogni anno in India, e perché i musulmani indiani potessero circolare liberamente sui mezzi pubblici senza subire aggressioni. In quei giorni protestò anche contro le violenze compiute in Pakistan dai musulmani contro gli induisti, chiedendo che fuori dall’India si adottassero strumenti per garantire una convivenza pacifica tra i due gruppi. Si espresse anche contro il governo indiano riguardo a un accordo preso tra India e Pakistan al momento della nascita dei due stati.

L’accordo riguardava tre versamenti che l’India avrebbe dovuto fare al Pakistan. Prima della divisione, infatti, l’India britannica aveva come unica banca la Reserve Bank of India (RBI), che funzionò come banca per i due stati fino al 1948, quando il Pakistan si dotò di una sua banca centrale. L’accordo prevedeva che parte dei soldi della RBI dovesse essere trasferita dall’India al Pakistan. Il versamento doveva avvenire in tre rate: l’India pagò le prime due ma non la terza, perché nel frattempo era iniziata la guerra nel Kashmir, stato indiano a maggioranza musulmana già allora rivendicato dal Pakistan (e tutt’oggi oggetto di una disputa territoriale). Gandhi invitò l’India a pagare quanto dovuto, nonostante la guerra.

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Lo sciopero della fame di Gandhi durò sei giorni, al termine dei quali i leader delle comunità induiste, musulmane e sikh indiane si riunirono e firmarono un accordo in cui si impegnavano a rispettare le condizioni per permettere una coesistenza pacifica dei tre gruppi in India. Durante lo sciopero, il governo indiano accettò inoltre di pagare al Pakistan l’ultima somma dovuta.

Alcuni storici – tra cui Arvind Sharma, autore di una recente biografia su Gandhi – ritengono che Godse cominciò a pianificare l’omicidio proprio nel giorno in cui Gandhi iniziò il suo ultimo sciopero della fame. Godse iniziò a pedinarlo e si procurò una pistola di marca italiana, una Beretta M34, forse arrivata in India con attività di contrabbando e originariamente appartenuta ai soldati italiani inviati in Africa in epoca coloniale.

La pistola con cui fu ucciso Gandhi (AP Photo)

Dopo l’omicidio di Gandhi, i conflitti tra induisti e musulmani continuarono, senza di fatto mai esaurirsi. Alcuni degli scontri più gravi e violenti si verificarono tra gli anni Ottanta e Novanta, col movimento “Ram Janmabhoomi” (“Il luogo di nascita di Rama”, una delle principali divinità induiste), che chiedeva la costruzione di un tempio in onore di Rama al posto della moschea di Babri ad Ayodhya e a cui negli anni seguenti aderirono molte persone di fede induista. Le tensioni intorno alla moschea arrivarono al loro culmine il 6 dicembre del 1992, quando circa 150mila persone marciarono su Ayodhya e demolirono la moschea. Gli scontri tra la comunità induista e quella musulmana andarono avanti per mesi e provocano la morte di migliaia di persone.

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Il conflitto tra induisti e musulmani in India, così come l’inimicizia tra India e Pakistan, continuano ad essere due questioni radicate e difficilmente risolvibili. Non solo: Godse, l’assassino di Gandhi, è diventato oggetto di un crescente culto in India e posizioni simili alle sue restano molto popolari tra i nazionalisti induisti più estremisti. Molti di loro sono considerati vicini al primo ministro indiano Narendra Modi, del partito nazionalista di destra BJP (Bharatiya Janata Party, in italiano “Partito del popolo indiano”). 

Negli ultimi anni Modi ha incoraggiato sempre di più il nazionalismo induista e ottenuto l’approvazione di leggi molto osteggiate dalla minoranza musulmana: tra queste la revoca dello “status speciale” al Kashmir, a cui è stata notevolmente ridotta l’autonomia concessa dalla Costituzione, e l’approvazione di una controversa legge per penalizzare i musulmani nel processo di ottenimento della cittadinanza indiana.

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