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  • Giovedì 26 gennaio 2023

I soccorsi in mare dei migranti, spiegati bene

Cosa succede da quando una nave della ong riceve la richiesta di aiuto nel Mediterraneo, fino all'assegnazione del porto da parte del governo italiano

di Luca Misculin

(Carlos Gil/Getty Images)
(Carlos Gil/Getty Images)
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Il diritto internazionale è piuttosto chiaro su cosa dovrebbe succedere in caso di naufragio in mare aperto e a chi appartengano le varie responsabilità. Esistono comunque situazioni in cui la volontà politica di un certo governo, come quello italiano, o le azioni imprevedibili di un corpo coinvolto nei soccorsi, come la Guardia costiera libica, rischiano di provocare potenziali crisi. Sono situazioni che espongono a critiche e tensioni politiche, ma perlopiù mettono in difficoltà sia le persone soccorse sia chi le soccorre, in particolare le ong che operano nel Mediterraneo con le loro navi.

I momenti di potenziale crisi durante un soccorso in mare sono diversi e per metterli in ordine la cosa più facile è seguire il tragitto di una nave che salpa da un porto italiano, soccorre i migranti che partono dalle coste del Nord Africa e poi ritorna in porto, spesso uno diverso da quello da cui era partita.

L’articolo 2.1.10 della convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), firmata nel 1979, impone a ogni nave di dare assistenza «a ogni persona in difficoltà in acqua» che si trova nei pressi della nave. Spesso le navi delle ong sono le più vicine alla zona dove avviene la maggior parte dei naufragi, nel tratto di mare compreso fra Libia, Tunisia e Italia. Quando la nave di una ong riceve notizia di un naufragio o di un’imbarcazione in difficoltà, nella maggior parte dei casi attraverso il call center gestito dall’ong Alarm Phone, si dirige verso il luogo dove si trova quell’imbarcazione.

E qui iniziano i problemi.

Chi avvisare?
Il diritto marittimo prevede che una nave che soccorre un’imbarcazione in difficoltà debba coordinarsi con lo stato costiero a cui appartiene la zona di mare in cui avviene.

Le aree in questione si chiamano zone SAR: in estrema sintesi, sono aree di mare in cui gli stati costieri competenti si impegnano a mantenere attivo un servizio di ricerca e salvataggio (in inglese search and rescue, abbreviato in SAR). Diversi accordi internazionali stabiliscono che per svolgere questo compito ciascuno stato costiero deve attrezzare un Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (in inglese MRCC) e mantenere una piccola flotta col compito di soccorrere navi in difficoltà. Il centro MRCC di una certa zona SAR deve essere allertato e coordinare le operazioni di soccorso compiute da qualsiasi nave all’interno dell’area marittima di competenza. I confini delle zone SAR sono definiti da specifici trattati internazionali, e nel caso del Mediterraneo sono definiti da oltre vent’anni.

Le zone SAR comprendono le acque territoriali, la zona contigua e la zona economica esclusiva di un certo paese – cioè zone su cui ciascuno stato esercita una forma di sovranità, per esempio sullo sfruttamento della pesca – ma anche alcune aree considerate acque internazionali. Può capitare insomma che uno stato gestisca una zona SAR che comprende zone di mare su cui ha sovranità (le acque territoriali), e altre su cui esercita una sovranità parziale o nessuna sovranità (la zona economica esclusiva e le acque internazionali), ma in cui si impegna ad esercitare una responsabilità sulle emergenze in mare.

L’Italia ha una zona SAR di circa 500mila chilometri quadrati ma spesso sovrintende anche a quella di Malta, che non ha i mezzi per operare da sola. Malta è un’isola poco più grande della provincia di Parma (Emilia-Romagna), e capita spesso che non abbia le risorse per coordinare a distanza un soccorso in mare, oppure che non abbia le navi necessarie per prestare soccorso in maniera concreta, o anche solo per rispondere alle richieste di aiuto. Spesso quindi le navi delle ong che soccorrono persone nella zona SAR di Malta avvisano anche l’MRCC italiano.

Poi c’è il problema della Libia, un paese quasi perennemente in guerra civile da più di una decina d’anni e senza un governo riconosciuto da tutta la popolazione come legittimo. Da qualche anno la Libia è tornata a gestire una zona SAR.

La zona SAR della Libia è gestita dalla cosiddetta Guardia costiera libica, un corpo formato da milizie armate, alcune delle quali responsabili del traffico di esseri umani che coinvolge i migranti. Da anni la cosiddetta Guardia costiera libica è finanziata e addestrata dall’Italia e dall’Unione Europea per fermare le partenze dei migranti dalle coste libiche, con ogni mezzo. Rimane comunque un corpo piuttosto irregolare e disorganizzato: soccorre chi vuole, quando vuole, e con i metodi che vuole, spesso violenti. Oltretutto, in un secondo momento, riporta le persone intercettate sulle coste libiche e le riconsegna ai trafficanti e ai gestori dei centri per migranti, dove le torture e gli stupri sono sistematici.

Coordinarsi con le autorità libiche è rischioso: se rispondono, potrebbero intervenire nelle operazioni di soccorso e riportare in Libia i migranti con la violenza. Per questo diverse navi delle ong non avvisano l’MRCC della Libia anche in caso di soccorsi effettuati nella zona SAR libica, e preferiscono chiamare l’MRCC italiano o quello maltese. I governi italiani di questi anni però, compreso quello in carica guidato da Giorgia Meloni, non apprezzano questa condotta: verosimilmente perché non vogliono farsi carico di tutti i migranti che attraversano il Mediterraneo centrale, nonostante le sofferenze e le morti causate dalle azioni (o dall’assenza di azioni) della cosiddetta Guardia costiera libica.

A ottobre, in una delle sue prime uscite pubbliche, il nuovo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva rimproverato le ong SOS Méditerranée e Sea Watch perché avevano soccorso decine di persone in varie operazioni «senza ricevere indicazioni dall’Autorità statale responsabile di quell’area SAR», cioè la Libia o Malta.

Una nave della cosiddetta Guardia costiera libica riporta circa 300 migranti intercettati nel Mediterraneo centrale a Tripoli, in Libia, nel maggio del 2017 (AP Photo/Mohamed Ben Khalifa)

La delicata fase del soccorso
Quando una nave arriva nei pressi di una imbarcazione di migranti in difficoltà i problemi che deve affrontare sono moltissimi, anche nel caso abbia a disposizione apposite attrezzature per il soccorso in mare, come quelle delle ong. Spesso si tratta di imbarcazioni troppo piccole per essere avvicinate dalle navi delle ong, che invece sono molto più grandi: le onde causate dall’avvicinamento rischierebbero di causarne il ribaltamento. Gran parte delle navi delle ong usa invece delle specie di gommoni chiamati Rigid Hull Inflatable Boat (battello gonfiabile a chiglia rigida), o RHIB, che fanno avanti e indietro per portare a bordo i naufraghi.

È uno dei momenti più delicati di tutta la missione di soccorso: gli operatori a bordo del RHIB devono decidere chi soccorrere per primo (spesso le donne incinte e i bambini), e nelle situazioni più gravi compiono scelte che possono significare la sopravvivenza di una persona e la morte di un’altra. In questi casi le priorità adottate possono apparire controintuitive, ma sono necessarie per soccorrere il maggior numero di persone. Se una persona è ormai quasi affogata a vari metri di distanza da altre persone in chiara difficoltà ma che si trovano più vicine, a meno di casi particolari i soccorritori proveranno a salvare i membri del gruppo, e solo in un secondo momento il naufrago isolato.

Un ulteriore problema riguarda, di nuovo, la Guardia costiera libica.

Un’operazione di soccorso nel Mediterraneo centrale compiuta dalla ong spagnola Open Arms nel marzo del 2021 (Carlos Gil/Getty Images)

I miliziani libici sono noti per lo scarso rispetto della sicurezza e dei diritti umani delle persone che intercettano in mare, che provano a fermare con ogni mezzo. A volte speronano le imbarcazioni dei migranti, e sparano nella loro direzione: le testimonianze al riguardo sono numerose. Due anni fa la ong Sea Watch riuscì a filmare una di queste operazioni.

A volte la cosiddetta Guardia costiera libica se la prende con le navi delle ong, soprattutto se riesce ad arrivare prima di loro nel punto dove si trova un’imbarcazione in difficoltà. Qualche giorno fa la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere stava per soccorrere un’imbarcazione che poco prima era già stata intercettata dai libici: l’equipaggio della cosiddetta Guardia costiera libica ha detto via radio a quello della Geo Barents di non avvicinarsi, altrimenti le avrebbe sparato.

Già nel 2016 la cosiddetta Guardia costiera libica aveva sparato alcuni colpi in aria per impedire a una nave di Medici Senza Frontiere di soccorrere un’imbarcazione di migranti. L’anno successivo Medici Senza Frontiere aveva brevemente sospeso le operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale per via del continuo «comportamento minaccioso della Guardia costiera libica». Questa minacciosità costringe le ong a scegliere se preservare la sicurezza del proprio equipaggio o il soccorso dei migranti in mare.

A volte succede invece che le navi della cosiddetta Guardia costiera libica arrivino dopo le navi delle ong, quando è già in corso un’operazione di soccorso. Anche in quel caso possono nascere dei problemi. Uno dei soccorritori della ong Sea Watch ha raccontato a Repubblica che qualche settimana fa una nave della Guardia costiera libica si era presentata nel punto dove i soccorritori stavano trasferendo a bordo della propria nave alcuni migranti in difficoltà. «Sul gommone è scoppiato il panico ed è entrata acqua. A causa dell’immediata situazione di emergenza, l’equipaggio [di Sea Watch] ha portato tutti a bordo della propria nave di soccorso». Poco più tardi, «armati di mitra hanno aggredito verbalmente i nostri equipaggi. Poi, a luci spente, hanno rimorchiato il gommone vuoto verso la costa libica».

L’equipaggio della nave Ocean Viking della ong SOS Méditerranée ha raccontato che mercoledì una nave della cosiddetta Guardia costiera libica è arrivata durante un’operazione di soccorso, e dopo avere compiuto delle «manovre pericolose» che hanno messo «in grave pericolo la sicurezza del nostro equipaggio e dei sopravvissuti», se n’è andata senza rispondere alla richiesta di Ocean Viking, che le chiedeva aiuto per cercare quattro dispersi.

Dopo un’operazione di soccorso
Durante le stagioni più calde le partenze dalla Libia e dalla Tunisia sono giornaliere, mentre nei mesi più freddi si concentrano nei pochi giorni di bel tempo e di mare calmo. Il vero “pull factor”, il fattore che condiziona maggiormente le partenze dalle coste dal Nord Africa, non è la presenza delle navi delle ong ma il meteo. Quando il tempo è cattivo, nessuno si mette in mare. Quando le condizioni lo permettono, diverse imbarcazioni di migranti partono una dopo l’altra: per questo, fino a poche settimane fa, le navi delle ong si trattenevano nel Mediterraneo centrale anche dopo aver soccorso decine di persone: in questi casi c’è sempre qualcun altro da soccorrere.

Le cose sono cambiate dalla fine del 2022, quando il governo italiano guidato da Giorgia Meloni ha approvato un nuovo codice di condotta per le ong che soccorrono persone nel Mediterraneo, con l’obiettivo nemmeno troppo velato di scoraggiare le loro operazioni.

Il codice di condotta prevede che le navi delle ong si dirigano «senza ritardo» verso il porto assegnato loro dopo un’operazione di soccorso. Nelle ultime settimane il governo sta assegnando porti dopo una sola operazione di soccorso, di fatto costringendo le navi delle ong a non farne altre. Nel codice di condotta non c’è un divieto esplicito di compiere più operazioni di soccorso: si dice però che le attività di una nave non devono «impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco». Per chi non rispetta il regolamento sono previste multe e nei casi giudicati più gravi il fermo amministrativo della nave, cioè in sostanza il suo sequestro.

Il codice di condotta prevede delle eccezioni per operazioni di soccorso «effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità», quindi sul tragitto e con l’assenso del governo italiano. In un’intervista di qualche giorno fa a Piazzapulita il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha esplicitamente detto che le ong possono soccorrere persone «lungo la traiettoria del percorso che gli viene assegnato». Il decreto però parla anche di «indicazioni» da parte del «centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo»: in sostanza della necessità di ricevere un assenso da parte del governo.

Mercoledì la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha soccorso altre due imbarcazioni in difficoltà dopo che ne aveva già soccorsa una martedì sera. Dopo il primo soccorso, la Geo Barents stava tornando verso nord perché il governo italiano le aveva assegnato il porto della Spezia, a cinque giorni di navigazione. I due soccorsi successivi sono avvenuti nei pressi del tragitto di ritorno. In nessuno dei due casi però il governo italiano ha dato alcuna «indicazione» alla Geo Barents, che di fatto quindi ha compiuto due operazioni non esplicitamente autorizzate, secondo il nuovo codice di condotta.

Non è chiaro se all’arrivo alla Spezia il governo contesterà a Medici Senza Frontiere di avere violato il nuovo codice di condotta. Una fonte del ministero dell’Interno ha detto a Repubblica che «la condotta della nave verrà valutata dal prefetto e dalle autorità di polizia dopo l’arrivo a La Spezia». Medici Senza Frontiere, insomma, ha dovuto decidere se rispettare alla lettera le nuove indicazioni del governo italiano, e lasciare che decine di persone annegassero o venissero intercettate dalla Guardia costiera libica, oppure procedere al soccorso e rischiare di subire un fermo amministrativo della nave.

La traversata verso nord
Ormai da qualche settimana il governo Meloni sta assegnando alle ong porti molto più a nord rispetto a quelli dove sbarcavano fino a poche settimane fa, cioè quelli della Sicilia e della Calabria, distanti circa uno o due giorni di navigazione dal Mediterraneo centrale. Il governo ha assegnato alle navi delle ong come porti di sbarco diverse città del Centro e Nord Italia, fra cui Livorno, La Spezia, Ravenna e Ancona.

Le conseguenze concrete di queste decisioni sono sostanzialmente due: i viaggi di ritorno delle navi delle ong si sono fatti più complessi e costosi, quindi sempre meno sostenibili. Le sofferenze dei naufraghi inoltre vengono prolungate per giorni: molti di loro hanno infatti bisogno di attenzioni mediche che a bordo non possono essere soddisfatte, nemmeno nelle navi più attrezzate.

Dal punto di vista dei costi, Medici Senza Frontiere spiega che per far funzionare la Geo Barents servono circa 10mila litri di carburante al giorno quando la nave si muove a velocità spedita: significano circa 14mila euro di carburante, ai prezzi di oggi. Per esempio allungare di sei giorni il proprio tragitto (tre all’andata e tre al ritorno) significa spendere 80mila euro in più per ogni missione. Cifre importanti anche per una ong internazionale, che si trova davanti a questa scelta: continuare a soccorrere poche persone a costi altissimi, oppure rinunciare alle operazioni – risparmiando o dirottando altrove quei soldi – e lasciare che migliaia di persone ogni anno muoiano o vengano riportate in Libia.

Il prolungamento delle sofferenze delle persone provocato dall’assegnazione di porti molto lontani viene sottolineato da tutte le ong che si occupano di soccorsi in mare. A volte si aggiunge inoltre il problema del cattivo tempo. A inizio gennaio il governo indicò alle due navi delle ong SOS Méditerranée e Medici Senza Frontiere di dirigersi verso il porto di Ancona, che distava più di tre giorni di navigazione. Il meteo lungo la rotta era pessimo, con venti molto forti e onde che allagarono il ponte inferiore della nave.

L’ulteriore conseguenza concreta è che mandare le navi delle ong a un porto così lontano, mentre i porti della Sicilia e della Calabria sarebbero distanti soltanto un giorno di navigazione, comporta che le navi saranno assenti per più tempo dalla zona dove di solito avviene la maggior parte dei naufragi: più persone moriranno annegate senza che ci sia nessuno che le soccorra.

L’ultimo ostacolo
Dal 2018 fino a poche settimane fa tutti i governi che si sono succeduti in Italia non hanno garantito subito un porto di sbarco alle navi delle ong che soccorrono persone in mare. Quando Matteo Salvini è stato ministro dell’Interno, fra il 2018 e il 2019, le navi venivano lasciate in mare per più di una settimana senza assegnare loro un “porto sicuro” per sbarcare e completare la propria missione di soccorso, come invece sarebbe previsto dalle norme internazionali.

Era la strategia dei “porti chiusi”, come l’aveva chiamata Salvini, e aveva una grossa componente di propaganda. Le leggi italiane e internazionali non permettono infatti al governo di approvare provvedimenti ufficiali per chiudere i porti a navi che trasportano migranti che intendono chiedere asilo: il diritto di richiedere una forma di protezione è previsto e garantito sia dalle leggi italiane sia dalle norme dell’Unione Europea. Esisteva ed esiste ancora invece un’area grigia fatta di divieti e comunicazioni informali che Salvini e i suoi successori hanno usato per ritardare il più possibile l’assegnazione di un porto di sbarco.

Il governo Meloni non ha cambiato il fine – ostacolare le operazioni delle navi delle ong – ma i mezzi: al posto che fare attendere per giorni le navi al largo delle coste, come dicevamo prima, ha iniziato ad assegnare loro porti lontanissimi.