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  • Venerdì 9 dicembre 2022

I problemi dell’inchiesta di ProPublica sul laboratorio di Wuhan

Prometteva grosse rivelazioni sulla teoria che il coronavirus si fosse diffuso dopo un incidente, ma ci sono stati errori di traduzione

Un lavoratore in tuta protettiva a Wuhan (AP Photo/Ng Han Guan)
Un lavoratore in tuta protettiva a Wuhan (AP Photo/Ng Han Guan)
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Alla fine di ottobre il giornale online ProPublica e il mensile Vanity Fair pubblicarono un’inchiesta sulle possibili origini del coronavirus: l’articolo partiva da uno studio di una commissione del Senato americano gestita da membri del Partito Repubblicano, ha avuto una larga diffusione ed è stato ripreso anche dalla stampa italiana, con molto clamore sui giornali di destra, ma non solo. L’inchiesta, che partiva dal rapporto della commissione, si basava sull’analisi di documenti e comunicazioni cinesi relative all’Istituto di virologia di Wuhan, città cinese in cui sono stati registrati i primi casi di contagio da coronavirus, e arrivava alla conclusione che l’origine della pandemia fosse, «più probabilmente che no», da imputarsi a un incidente legato alla ricerca all’interno del laboratorio.

La figura centrale dell’inchiesta era Toy Reid, un ricercatore di 44 anni, studioso di lingue e filosofie orientali, traduttore dal mandarino e presentato come «uno dei pochi» in grado di cogliere le sfumature del linguaggio ufficiale burocratico cinese. Questo presunto sottolinguaggio veniva descritto dallo stesso Reid come una «lingua quasi segreta, che nemmeno i cinesi di lingua madre possono completamente cogliere». Reid aveva quindi messo le sue «non comuni capacità» al servizio dei lavori della commissione Repubblicana, traducendo comunicazioni e documenti ufficiali: nella sua interpretazione, questi lasciavano intendere l’esistenza di consistenti problemi di sicurezza e il verificarsi di uno o più incidenti.

Subito dopo la pubblicazione dell’inchiesta, le traduzioni di Reid così come il concetto dell’esistenza di un «linguaggio segreto» sono state oggetto di forti critiche da un numero consistente di traduttori dal mandarino e di esperti di cultura cinese. A rispondere alle critiche è stata soprattutto ProPublica, testata online dalla consolidata reputazione nel giornalismo d’inchiesta: è un sito fondato nel 2007, non ha fini di lucro, vive grazie alle donazioni di privati cittadini e fondazioni filantropiche ed è stato il primo giornale online a vincere il premio Pulitzer per il giornalismo investigativo, nel 2010.

Dopo una lunga revisione, ProPublica a fine novembre ha pubblicato una versione modificata dell’inchiesta, correggendo alcuni errori fattuali, aggiungendo alcune parti omesse e corredando la nuova edizione di una nota che provava a spiegare il lavoro e comunque difendeva la bontà dell’inchiesta e delle sue conclusioni.

Il lavoro di revisione si è concentrato soprattutto sulla verifica delle traduzioni, per le quali sono stati consultati altri tre interpreti, ma anche questa indagine supplementare e le conclusioni conseguenti fanno emergere più di una criticità. Le ha sottolineate nei giorni scorsi James Fallows, illustre giornalista americano di 73 anni, che è stato a lungo uno degli autori più importanti del magazine Atlantic, che ha scritto per molte altre testate e che per due anni ha fatto anche lo speechwriter del presidente Jimmy Carter. Da circa un anno ha una newsletter su Substack che si occupa di media e del modo in cui vengono raccontate le notizie.

Fallows ha intervistato Brendan O’Kane, uno stimato traduttore dal cinese, e ha analizzato i problemi alla base dell’inchiesta, senza entrare nel merito delle sue conclusioni, ma sottolineando i limiti delle premesse. O’Kane ha sottolineato in primis quello che già era stato evidenziato da altri critici, anche di origini cinesi: «Credo che la cosa più importante sia demistificare. Il mandarino non è una lingua strana e speciale, è parlata da un quinto dell’umanità. Ha le sue difficoltà, ma non è impossibile fare del fact-checking in cinese».

In quanto al linguaggio usato dai funzionari, O’Kane come altri traduttori sostiene che sia un linguaggio denso, noioso, ma non sia «una versione speciale e diversa del cinese»: chiunque sappia leggere in cinese può comprendere anche questi documenti, la cui contestualizzazione poi ha bisogno di alcuni riferimenti e conoscenze della società cinese.

Queste premesse, dice Fallows, avrebbero dovuto già far scattare alcuni campanelli d’allarme, così come il descrivere come un processo complesso e non comune usare una tecnologia VPN (rete privata virtuale) per accedere agli archivi di Wuhan (cosa che invece è piuttosto semplice da fare). Entrando nello specifico della traduzione, si sottolinea come una frase centrale per sostenere la tesi dell’incidente, quella che indicherebbe l’apertura per errore di una provetta e la diffusione del virus, sia in realtà interpretabile in altro modo e indichi una possibilità, come a dire: «Se una provetta dovesse mai essere aperta…».

Un secondo errore e una omissione riguardano un altro passaggio, in cui l’inchiesta riporta una frase che indicherebbe una triplice mancanza: di criteri di sicurezza, di capacità di gestione e di progettualità nella ricerca. La frase però non è da intendersi al presente, come tradotto da Reid, ma al passato (in mandarino non esistono i tempi verbali come noi li intendiamo), tanto più che è presente una seconda parte, non riportata, in cui i funzionari invece spiegano il raggiungimento dei tre obiettivi. Fallows nell’intervista spiega come sia difficile sostenere un errore di traduzione “innocente” in questo caso, visto che la frase è interrotta a metà. L’intervistato inoltre sostiene che tutta l’opera di traduzione sia effettuata “a tesi”, partendo cioè dall’idea che sia avvenuto un incidente nel laboratorio e interpretando le comunicazioni e i documenti in modo da dimostrarlo.

ProPublica non ha ulteriormente risposto, al momento, a queste obiezioni, ma l’intera inchiesta si è rivelata problematica, anche dopo le correzioni e le spiegazioni. Presentata come una prova importante, anche se non definitiva, per sostenere l’origine da “errore umano” di laboratorio della pandemia da COVID-19, in realtà non sembra spostare nulla nel dibattito né portare alcun elemento certo sulla questione. Solleva invece, secondo molti critici, molte questioni sui metodi di giornalismo investigativo delle due testate coinvolte e indica una certa ingenuità nell’approcciarsi al mandarino.