Storie di loghi cambiati male

Ogni tanto le operazioni di rebranding delle grandi aziende vengono criticate o creano confusione, come nel recente caso di Kia

Il nuovo logo di KIA (AP Photo/ Lee Jin-man)
Il nuovo logo di KIA (AP Photo/ Lee Jin-man)
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È piuttosto comune che trascorso un certo periodo di tempo un’azienda cambi il proprio logo, modificandone la grafica e i caratteri oppure sostituendolo con un altro del tutto diverso: sono operazioni che vengono chiamate di “rebranding” e servono per rinnovarsi, rilanciarsi o farsi notare di più. Auspicabilmente lo scopo del rebranding (che si può tradurre in maniera approssimativa come “rinnovamento del marchio”) è quello di rafforzare l’identità di un’azienda, acquisire nuovi clienti e far aumentare le vendite: in qualche caso però questi processi hanno avuto un effetto opposto.

Uno degli esempi recenti di un’operazione di rebranding andata così così è quello della casa automobilistica sudcoreana Kia, che all’inizio del 2021 aveva cambiato il proprio logo e quindi anche lo stemma sulla carrozzeria delle proprie automobili. Nel vecchio logo di Kia le tre lettere del marchio comparivano all’interno di un ovale, in maiuscolo e in bordeaux; in quello nuovo invece sono sempre in maiuscolo, ma in nero e soprattutto in un font piuttosto schiacciato e spigoloso, sempre senza il trattino orizzontale della “A”, con il risultato che secondo molti è più facile leggerci la scritta “KN” anziché “KIA”.

Come ha osservato di recente The Verge, e come indicano le analisi del sito specializzato The Drive, molte persone sembrano essere rimaste confuse dal nuovo logo.

Il fatto che ogni mese decine di migliaia di utenti cerchino online le parole chiave “KN car”, “KN car logo” o “KN car brand” indica che il nuovo logo di Kia non è di immediata comprensione. The Drive ha notato che le ricerche online per “le auto della KN” sono cominciate nei mesi successivi al rebranding di Kia e che i picchi ci sono stati soprattutto in corrispondenza dell’introduzione sul mercato dei nuovi modelli di auto (per esempio nel dicembre del 2021, con il lancio della nuova Sportage, come si nota anche dagli andamenti su Google Trends).

Adesso se si fa una ricerca su Google il primo risultato di ricerca per “KN car” porta direttamente al sito di Kia. Se la ricerca avviene su Google News però si finisce su vari siti di notizie o siti specializzati che hanno dovuto spiegare la confusione rispetto al nuovo logo della casa automobilistica: una confusione che secondo The Verge deriva anche dal fatto che la gran parte dei modelli di auto di Kia non sia estremamente riconoscibile né distinguibile dalle auto di altri marchi.

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Non tutti i loghi indicano chiaramente un marchio, un’azienda o i suoi prodotti, ma in ogni caso uno dei loro obiettivi principali è quello di creare familiarità con il pubblico. Negli ultimi decenni tuttavia ci sono state numerose altre operazioni di rebranding che hanno generato altrettanta confusione, critiche e anche perdite di fatturato.

GAP
GAP è un marchio di abbigliamento casual molto conosciuto in tutto il mondo. Nel 2010, in seguito a un calo significativo delle vendite dovuto alla crisi globale cominciata due anni prima, l’azienda decise di cambiare il suo logo tradizionale, usando un font diverso e aggiungendo un quadratino accanto alla scritta.

(Loghi tratti da Wikimedia Commons)

Secondo Bill Chandler, allora responsabile della comunicazione aziendale, il nuovo logo doveva essere «più contemporaneo, un’espressione moderna» dell’azienda. Il rebranding però fu accolto con fastidio e proteste dai clienti di GAP, che sostennero non rappresentasse l’identità dell’azienda. In meno di una settimana GAP ripristinò il vecchio logo.

Tropicana
Nel 2009 la Tropicana Products, di proprietà di Pepsi Co. cambiò il formato, il logo e la grafica del suo prodotto di punta nel mercato nordamericano, il succo d’arancia. Le modifiche furono ampiamente criticate dai consumatori, secondo cui nonostante una campagna pubblicitaria da 35 milioni di dollari il rebranding aveva reso difficile distinguere il prodotto dell’azienda dai marchi generici, di qualità inferiore. The Branding Journal, sito specializzato in marketing e pubblicità, racconta che nel giro di due mesi le vendite dei succhi Tropicana calarono del 20 per cento, cosa che equivalse a 30 milioni di dollari in meno di incassi per l’azienda. Poche settimane dopo le confezioni di succo d’arancia di Tropicana tornarono ad avere la loro vecchia grafica.

(Grafica tratta dal sito di The Branding Journal)

Mastercard
Uno dei loghi più riconoscibili delle società che si occupano di sistemi di pagamento digitali ed elettronici è quello di Mastercard. Nel 2016, in un’operazione di rebranding, si scelse di passare a un logo più minimale, che manteneva i suoi due tipici cerchi sovrapposti colorati di rosso e arancione, ma aveva la scritta al di sotto anziché al suo interno. Tre anni dopo, basandosi sull’idea che le persone abituate a usare le carte di credito conoscessero molto bene il marchio, il nome venne tolto dal logo: anche in questo caso creando un po’ di confusione e provocando qualche critica.

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Kraft
Nel 2009 la storica azienda alimentare statunitense cambiò completamente la grafica del suo storico logo, scegliendone un altro che a detta di vari commentatori conteneva elementi grafici che non avevano alcun collegamento con la storia del marchio e non aggiungevano nulla alla sua identità. Dopo alcuni mesi, Kraft cambiò di nuovo logo e cominciò a usarne uno del tutto simile a quello tradizionale.

(Loghi tratti da Wikimedia Commons)

Animal Planet
Il logo tradizionale del canale televisivo dedicato alla vita degli animali si faceva notare per il disegno di un elefante su sfondo verde, ma quello più stilizzato che lo sostituì nel 2018 fu considerato non rappresentativo della rete né dei temi che trattava. Per questi motivi la rete cambiò di nuovo logo, scegliendone uno un po’ più moderno e più legato al mondo animale, che tornò ad avere al centro un elefante.

(Loghi tratti da Wikimedia Commons)

BP
Nel 2000, dopo novant’anni di attività, la società energetica britannica British Petroleum, attiva soprattutto nel settore del petrolio e del gas naturale, cambiò il proprio logo e il nome, in BP (per “Beyond Petroleum”, letteralmente “al di là del petrolio”). Quello di BP fu considerato uno dei primi grandi esempi di “greenwashing”, quell’operazione con cui le aziende provano a ripulirsi l’immagine spacciandosi per attente all’ambiente, nonostante abbiano responsabilità – grandi responsabilità, nel caso di British Petroleum – nella crisi climatica. Ancora oggi British Petroleum si chiama ufficialmente BP.

(Loghi tratti da Wikimedia Commons e dal sito di BP)

Negli ultimi anni sono stati criticati anche il rebranding di Pepsi, che nel 2008 spese 1 milione di dollari per avere un logo assai simile a quello precedente, o quello della società di servizi internet AOL, che l’anno seguente, prima di essere acquisita da Verizon, aggiunse un inusuale punto alla fine delle tre lettere del suo logo, accompagnato da grafiche ritenute discutibili dagli esperti di design. Nel 2016 invece fu molto preso in giro il nuovo logo di Hershey’s, il più famoso produttore di cioccolato degli Stati Uniti, per via di un simbolo che ad alcuni aveva ricordato della cacca.

C’è poi il caso del logo delle Olimpiadi di Londra 2012, che secondo molti osservatori è stato uno dei più brutti della storia dei Giochi. L’idea dei creatori del logo era usare un carattere particolare per creare un brand unico nel suo genere, che colpisse soprattutto il pubblico più giovane: ne venne fuori un “2012” con numeri convergenti e dai profili sporgenti (per dare l’idea di movimento), ma a detta di molti sgraziato, difficile da capire, non rappresentativo dei Giochi e perfino volgare.

(London 2012 via Getty Images)

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