È difficile sapere dove finisce tutta la plastica

Ed è un problema, ora che i paesi del mondo stanno discutendo un trattato internazionale per ridurre la sua presenza nell'ambiente

(Christopher Furlong/Getty Images)
(Christopher Furlong/Getty Images)
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In meno di un secolo dalla sua diffusione, la plastica è diventata uno dei materiali più diffusi e utilizzati al mondo. Pratica ed economica, ha cambiato il nostro rapporto con gli oggetti, rendendo normale e accettato il concetto di “usa e getta”, e ha aperto grandi opportunità nella ricerca e nello sviluppo di nuovi materiali in moltissimi ambiti, da modi più efficienti per conservare il cibo ai dispositivi per curare le persone. Questi enormi benefici non sono stati però privi di costi e il più grande di tutti riguarda l’ambiente: la plastica è talmente diffusa e utilizzata da avere colonizzato praticamente qualsiasi ecosistema, diventando un problema sempre più grande e urgente da affrontare.

Dopo decenni di promesse mancate e impegni non mantenuti da parte di numerosi governi e istituzioni, quel senso di urgenza potrebbe infine trasformarsi in un trattato internazionale vincolante per ridurre l’inquinamento che deriva dalla plastica. Alla fine di novembre in Uruguay si terrà la prima riunione del comitato intergovernativo delle Nazioni Unite che ha il compito di gestire i negoziati per definire i termini del trattato, dopo che lo scorso marzo 175 paesi avevano sottoscritto a Nairobi, in Kenya, un impegno per l’adozione di un documento internazionale sul tema. Dopo l’Uruguay ci saranno altri incontri nel corso del 2023, con l’obiettivo di completare il lavoro entro il 2024.

Attraverso i negoziati, i governi dovranno formalizzare regole per rendere il più possibile tracciabile il ciclo della plastica, dalla provenienza delle materie prime per produrla, come il petrolio (compresi i pozzi da cui viene estratto), ai prodotti finiti e alla loro trasformazione in rifiuti. Ogni paese si dovrà inoltre impegnare a livello regionale, nazionale e internazionale con iniziative per prevenire l’inquinamento derivante dalla plastica ed eliminare quello ormai esistente. E di rifiuti plastici ce ne sono davvero tantissimi.

Si stima che la quantità di plastica non riciclata prodotta tra il 1950 e il 2017 equivalga a oltre 9 miliardi di tonnellate: circa la metà è stata prodotta dall’inizio di questo secolo e meno di un terzo è ancora oggi in uso. Ciò che è diventato rifiuto è finito per l’80 per cento nelle discariche o disperso nell’ambiente, andando a inquinare il suolo, i corsi d’acqua e gli oceani. Agli attuali ritmi, la quantità di rifiuti di plastica potrebbe triplicare entro il 2060, mentre le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’intero ciclo di vita della plastica potrebbero raddoppiare nei prossimi 40 anni, secondo le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD).

Rifiuti di plastica estratti dal fiume Citarum, in Indonesia (Ed Wray/Getty Images)

Quando pensiamo ai rifiuti di plastica ci vengono in mente soprattutto le bottiglie per l’acqua e le bibite, i flaconi di saponi e detersivi o ancora gli involucri che proteggono gli alimenti confezionati. In realtà la plastica è presente in una quantità enorme di prodotti, dai cosmetici ai fertilizzanti passando per i detersivi stessi. Non esiste inoltre un solo tipo di plastica: dagli anni Cinquanta sono state sviluppate decine di molecole di vario tipo, con caratteristiche diverse e con uno specifico impatto sull’ambiente. Sappiamo che esistono, ma oggi non sappiamo di preciso dove vadano a finire tutte queste sostanze, e questo potrebbe essere un serio problema per definire con precisione gli scopi del nuovo trattato.

Come hanno spiegato vari gruppi di ricerca al sito della rivista scientifica Nature, è sempre più importante sapere da dove arriva la plastica e dove va a finire. Per questo motivo negli ultimi anni sono aumentate le ricerche e gli studi scientifici per sviluppare nuovi sistemi per rilevare la presenza della plastica negli ecosistemi, che può essere presente in frammenti minuscoli e a noi invisibili, e per valutare se questa abbia effetti sulla salute degli esseri viventi, noi compresi.

Uno dei rapporti più recenti e rilevanti sul tema è stato prodotto dalle Accademie nazionali delle scienze, dell’ingegneria e della medicina degli Stati Uniti (NASEM). Oltre a segnalare la necessità di organizzare strategie per ridurre la presenza di rifiuti plastici negli oceani, il rapporto indica le numerose lacune che ci sono ancora per analizzare completamente il ciclo della plastica e trovare soluzioni per renderla pienamente riciclabile. Il problema da risolvere con maggiore urgenza riguarda la mancanza di un sistema che sia scientificamente affidabile per tracciare e tenere sotto controllo la diffusione della plastica su scala globale.

(David Silverman/Getty Images)

Nella maggior parte dei paesi del mondo, chi produce plastica deve osservare vincoli nel momento della produzione, mentre non ha poi particolari responsabilità una volta che i suoi prodotti vengono venduti. Per la plastica usa e getta le responsabilità ricadono sui singoli consumatori, per esempio, ma non c’è modo di tracciare completamente il percorso che fa un involucro dalle materie prime con cui è stato realizzato alla discarica. La plastica è leggera e si degrada spesso in componenti molto piccole (microplastiche), che possono finire ovunque ed essere rilevate dai gruppi di ricerca, ma difficilmente si può risalire con precisione alla loro origine. E se non si sa da dove arrivano i polimeri trovati nel suolo o nell’acqua, diventa difficile intervenire sulla fonte che ha causato il problema.

Per provare a migliorare le cose, anche in vista del trattato in lavorazione, le Nazioni Unite e altre istituzioni hanno prodotto alcune linee guida su come i gruppi di ricerca dovrebbero raccogliere i dati sulla plastica che analizzano e su come dovrebbero poi condividerli con il resto della comunità scientifica. Queste attività di armonizzazione coinvolgono università e centri di ricerca, che lavorano per creare set di dati che possano essere confrontati facilmente tra loro, in modo da identificare andamenti specifici e anomalie. Benché ci siano ancora numerose lacune, il confronto dei dati inizia a offrire qualche spunto, anche se è difficile risalire dall’inquinamento rilevato alle sue origini.

Il rapporto di NASEM ha indicato come il ciclo produttivo della plastica sia poco trasparente e sia quindi necessario intervenire sulla mancanza di dati. Ci dovrebbe essere la stessa attenzione che si ha sui consumatori finali, che materialmente gettano la plastica quando ha esaurito il proprio scopo, anche su chi produce plastica, come ha ricordato a Nature Jenna Jambeck, autrice di un importante studio sui milioni di tonnellate di plastica che ogni anno finiscono negli oceani: «Ci preoccupiamo molto quando questo materiale finisce nell’ambiente: è la cosa che ci indigna. Ma non ci occupiamo di ciò che avviene prima di questo punto. Se vuoi evitare che finisca nell’ambiente, dobbiamo occuparci di ciò che accade molto prima nella catena produttiva, e tenere traccia di quei dati».

Ciò non significa naturalmente trascurare ciò che avviene a valle della produzione della plastica, quando entra nel ciclo dei rifiuti. Tra le risorse più importanti per i gruppi di ricerca ci sono i dati forniti dal sistema Comtrade delle Nazioni Unite, anche se parziali e privi di dettagli su che cosa accada ai rifiuti di plastica nelle loro ultime fasi quando vengono distrutti, riciclati o venduti da un paese a un altro che si occupi del loro smaltimento.

Per lungo tempo la Cina era stata tra i più grandi paesi importatori di rifiuti di plastica, al punto da raccogliere circa il 45 per cento di tutti quelli prodotti nel mondo tra il 1992 e il 2018. In quell’anno decise di cambiare politica, fermando le importazioni di quei rifiuti che finirono quindi verso altri paesi sempre asiatici, compresi Indonesia e India. La diaspora di questi rifiuti ha fatto sì che diventasse ancora più difficile tracciare gli spostamenti dei rifiuti di plastica e che il crimine organizzato intensificasse i propri sforzi per approfittarne. Nel 2019 si rese quindi necessario aggiungere i rifiuti di plastica alla lista dei rifiuti pericolosi della Convenzione di Basilea sulle esportazioni di rifiuti, uno dei trattati internazionali più importanti su queste pratiche, che non è però stato mai sottoscritto dagli Stati Uniti, uno dei più grandi produttori di rifiuti di plastica del pianeta.

Molti paesi del Sudest asiatico e dell’Africa ricevono grandi quantità di rifiuti di plastica, sia attraverso percorsi legali per smaltire i rifiuti di altri paesi sia attraverso attività gestite dal crimine organizzato, senza avere effettivamente gli spazi e le risorse per smaltirli in sicurezza e a basso impatto per l’ambiente. I paesi coinvolti sono gli stessi che subiscono già normalmente la presenza di grandi quantità di rifiuti, che arrivano per esempio sulle loro coste dopo che la plastica ha viaggiato per migliaia di chilometri galleggiando nell’oceano.

Rifiuti di plastica sulla riva del lago Uru Uru in Bolivia (Gaston Brito Miserocchi/Getty Images)

Per ridurre il problema si stanno sperimentando sistemi GPS da applicare ai container che trasportano i rifiuti di plastica, in modo da assicurarsi che siano trasportati senza violare le leggi e i trattati internazionali. Altre soluzioni riguardano l’impiego di sistemi satellitari per tracciare i movimenti delle navi e, per quanto riguarda i rifiuti dispersi negli oceani, gli spostamenti della plastica finita nell’ambiente. Le rilevazioni satellitari svolte dal consorzio Copernicus dell’Unione Europea, per esempio, possono aiutare a identificare le isole galleggianti di plastica che si formano sulla superficie degli oceani e che, debitamente tracciate, potrebbero aiutare a comprendere la loro provenienza.

La necessità di definire più chiaramente questi aspetti in vista della preparazione del trattato internazionale dovrebbe favorire, nei prossimi anni, lo sviluppo di nuove tecnologie e risorse per tenere meglio traccia della plastica. Gli esperti ricordano però che il problema potrà essere risolto solo rivedendo l’intero ciclo di utilizzo della plastica, riducendo il più possibile la sua produzione e migliorando i sistemi di recupero dei rifiuti e di riciclo degli stessi. Per riuscirci è necessario un forte coinvolgimento delle aziende che utilizzano molta plastica e che finora non hanno brillato nel ridurre il loro impatto ambientale.

All’inizio del 2018, centinaia di grandi aziende avevano sottoscritto il Global Commitment, un’iniziativa legata al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente con lo scopo di ridurre l’inquinamento da plastica. Tra i sottoscrittori c’erano società molto conosciute e che controllano tantissimi marchi come Nestlé, Mars, L’Oréal, SC Johnson, Coca-Cola e PepsiCo, che si erano impegnate a ridurre l’impiego di plastica vergine (quindi non derivante dal riciclo) e a concentrarsi nello sviluppo di confezioni e involucri riciclabili o compostabili.

Secondo il rapporto di quest’anno sull’andamento del Global Commitment, molte aziende non hanno mantenuto gli impegni o non stanno procedendo verso i progressi sperati. Coca-Cola si era impegnata a ridurre del 20 per cento l’impiego di plastica non riciclata nel 2021 rispetto al 2019, ma ne ha usata il 3 per cento in più; Mars aveva promesso una riduzione del 25 per cento nell’impiego in generale di plastica, ma ne ha utilizzato l’11 per cento in più sempre negli stessi periodi di riferimento. Nel 2018 il 49 per cento degli involucri impiegati da Nestlé erano riciclabili, riutilizzabili o compostabili, mentre nel 2021 la percentuale è scesa al 45 per cento.

Nel complesso il rapporto ha rilevato un aumento dell’1,7 per cento nell’impiego di plastica riciclabile, compostabile o riutilizzabile rispetto alla rilevazione precedente. Il progresso è comunque inferiore alle previsioni e la plastica mantiene dei limiti sulla quantità di volte che può essere riciclata, anche a seconda dei polimeri che la compongono.