Fino agli anni Cinquanta sono esistiti gli “zoo umani”

Cioè esposizioni grottesche e disumane in cui le persone ritenute diverse per il loro fisico o la loro etnia venivano messe in mostra

Un disegno del giardino zoologico di Montezuma basato su una mappa del 1524 (Wikimedia Commons)
Un disegno del giardino zoologico di Montezuma basato su una mappa del 1524 (Wikimedia Commons)
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Per secoli sia in Europa che in Nord America gli esseri umani che avevano caratteristiche fisiche particolari o erano di etnie diverse rispetto a quella caucasica furono considerati diversi, se non primitivi o selvaggi. Dal tardo Rinascimento molte società europee svilupparono l’abitudine di far arrivare nelle loro città “esemplari” di persone considerate esotiche per poterle osservare e mettere in mostra nei cosiddetti “zoo umani”: fu una pratica grottesca e disumanizzante, che trasformò una certa curiosità per i corpi e le culture sconosciute in concetti distorti di “altro” o “straniero”, successivamente alla base delle teorie razziste che giustificarono la presunta superiorità di alcuni popoli su altri, soprattutto durante il periodo coloniale.

Come racconta un articolo di BBC Mundo, in Europa l’ultima di queste cosiddette esposizioni etnologiche fu organizzata dopo la seconda metà del Novecento.

Uno dei primi esempi di luoghi dove gli esseri umani venivano messi in mostra fu quello del giardino zoologico di Montezuma, la collezione di animali voluta dall’imperatore azteco Montezuma II nel palazzo dell’attuale città messicana di Tenochtitlán a inizio Cinquecento. Secondo le informazioni che ci sono arrivate fino a oggi, nel giardino di Montezuma c’erano uccelli e animali di ogni tipo, ma anche un settore dedicato a quelli che i cronisti dell’epoca descrivevano come «mostri» ed «errori della natura», come persone albine, con la gobba, affette da nanismo o con malformazioni fisiche.

Più o meno nello stesso periodo la nota casata dei Medici aveva allestito un ampio giardino zoologico al Vaticano: alcuni storici raccontano che Ippolito de’ Medici, morto nel 1535 a 24 anni, avesse sia una vasta collezione di animali esotici che uno zoo umano pieno di “selvaggi”, schiavi che parlavano più di 20 lingue diverse, tra cui mori, tartari, indiani e turchi.

Fu comunque nell’Ottocento che quello di mettere in mostra “esemplari” di esseri umani divenne un fenomeno globale: persone provenienti dall’Africa, dall’Indonesia o dal Sud America venivano portate a Parigi, New York, Londra o Berlino affinché potessero essere osservate anche dalla gente durante le grandi fiere internazionali.

Un villaggio congolese ricostruito durante l’esposizione coloniale di Tervuren, in Belgio, nel 1897 (Wikimedia Commons)

Una delle storie più conosciute di persone messe in mostra in Europa è quella di Sara (o Saartjie) Baartman, una donna di etnia khoi proveniente dall’Africa sudorientale.

Nata attorno al 1780, Baartman era la schiava in una famiglia di boeri a Città del Capo. Nel 1810 fu portata a Londra, dove cominciò a essere esibita nelle fiere per l’intrattenimento degli spettatori, diventando una sorta di fenomeno da baraccone. Il suo elemento fisico più distintivo erano le sue grosse natiche, un tratto non comune nei corpi delle persone europee. Come raccontano lo storico Clifton Crais e l’esperta di studi africani Pamela Scully in un libro basato sulla sua vita, la gente andava a vederla perché non la considerava una persona, ma qualcosa che arrivava da un’altra parte del mondo.

In Europa Baartman era conosciuta come la “venere ottentotta”, un nomignolo che fu attribuito ad almeno un’altra donna che come lei fu esibita in giro per l’Inghilterra e in altre città europee (ottentotto è un aggettivo considerato dispregiativo per le persone di etnia khoi).

Un disegno che raffigura Sara Baartman nel 1810 (Wikimedia Commons)

Baartman fu poi portata a Parigi, dove venne studiata da antropologi e naturalisti, ritratta da alcuni pittori quasi del tutto nuda e portata a feste ed eventi privati di persone aristocratiche: Crais e Scully raccontano che veniva trattata come un animale e che in qualche caso era anche portata in giro con una catena attorno al collo. Dopo la sua morte, avvenuta nel dicembre del 1815, il suo cadavere fu sezionato: il suo cervello, lo scheletro e i genitali (che avevano le piccole labbra più lunghe della norma, come quelli di molte donne khoi) furono esibiti al museo dell’Uomo di Parigi fino al 1974.

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Nei decenni successivi si diffusero anche le esposizioni in cui venivano messi in mostra gruppi di persone all’interno delle ricostruzioni dei loro villaggi, un modo con cui gli europei potevano osservare stili di vita che ritenevano primitivi.

Il commerciante di animali selvatici Carl Hagenbeck fu uno dei primi a diffondere la moda di mostrare i «selvaggi» nel loro «ambiente naturale» in Germania, diventando poi impresario di altri giardini zoologici in tutta Europa. Nel 1874 organizzò una mostra di persone samoane e sami (il gruppo etnico originario della Lapponia) assieme ad animali tipici dei rispettivi luoghi d’origine; due anni dopo fece lo stesso con un gruppo di nubiani, una popolazione che vive tra il nord del Sudan e il sud dell’Egitto, ottenendo un successo enorme.

Si ritiene che l’idea di Hagenbeck avesse ispirato il francese Geoffroy de Saint-Hilaire, il direttore del Jardin d’acclimatation di Parigi, un parco divertimenti dove nel 1877 furono organizzate due esposizioni etnologiche con nubiani e inuit. Le esposizioni attirarono un milione di persone: si stima che tra il 1877 e il 1912 nel giardino zoologico del parco furono organizzati circa trenta “spettacoli” di questo tipo.

Il cosiddetto “villaggio nero” ricostruito durante la fiera di Nantes nel 1904 (Wikimedia Commons)

Durante l’Esposizione universale di Parigi nel 1878 fu ricostruito un villaggio africano in cui vennero esibite anche persone provenienti dalle colonie del Senegal, mentre nel padiglione olandese della fiera furono messe in mostra persone native dell’Indonesia e della Cambogia, che dovevano esibirsi in danze e rituali vari. Durante l’Expo del 1889, sempre a Parigi, furono fatti arrivare anche 11 nativi di un villaggio cileno. Nel 1897 in Belgio re Leopoldo II fece arrivare 267 persone dal Congo per esibirle nel suo palazzo a Tervuren, a est di Bruxelles: molte di loro morirono durante l’inverno, ma anche in questo caso l’evento ebbe enorme popolarità.

L’abitudine di includere nelle fiere persone di etnie diverse o di organizzare spettacoli itineranti in cui erano sfruttate per l’intrattenimento del pubblico si diffuse anche negli Stati Uniti. In occasione dell’Expo di Saint Louis nel 1904 per esempio furono portate nel paese circa 1.300 persone di varie tribù delle Filippine.

Generalmente, oltre a essere messe in mostra in fiere che attiravano centinaia di migliaia se non milioni di spettatori, queste persone considerate selvagge venivano fotografate, visitate, pesate e costrette a fare quello che dicevano gli impresari.

Un gruppo di Selk’nam, detti anche Ona, nativi sudamericani portati a Parigi nel 1899 (Wikimedia Commons)

Fino agli anni Trenta nelle esposizioni coloniali di Marsiglia e a Parigi continuarono a essere messi in mostra esseri umani, spesso quasi del tutto nudi oppure in gabbie. Furono allestiti villaggi “etno-espositivi” anche in varie città italiane, tra cui Torino, Milano, Roma, Genova e Napoli. Spesso questi zoo umani includevano esibizioni dal vivo in cui venivano riproposte scene di vita quotidiana di vari popoli africani, tra cui eritrei e somali: i primi risalgono a fine Ottocento, ma diventarono popolari in particolare con l’avvento del fascismo e grazie alla propaganda del regime.

L’ultimo zoo umano in Europa fu quello presentato durante l’Esposizione universale di Bruxelles nel 1958, dove il pubblico poté osservare la ricostruzione di un villaggio congolese. Se le persone esposte non reagivano, gli spettatori tiravano loro monete o banane, scrisse un cronista dell’epoca citato da BBC Mundo.

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Nel 1906 l’antropologo Madison Grant, segretario della New York Zoological Society, fece mettere in mostra al giardino zoologico del Bronx il giovane Ota Benga, un congolese di etnia mbuti, un popolo dell’Africa centrale i cui membri sono conosciuti anche come pigmei del Congo. Il ragazzo, poco più che ventenne, fu rinchiuso in una gabbia assieme a un orango con l’obiettivo di dimostrare che fosse il cosiddetto “anello mancante” nell’evoluzione tra scimmie ed esseri umani.

Un secolo prima il naturalista francese Georges Cuvier aveva invece sostenuto che le piccole orecchie di Baartman fossero simili a quelle degli oranghi e che la sua vivacità ricordasse quella di una scimmia.

Dalla metà dell’Ottocento gli studi sugli esseri umani messi in mostra in Europa portarono certi naturalisti, filosofi e antropologi a sviluppare teorie secondo cui alcune “razze” fossero superiori ad altre nella scala evolutiva. Nacque così il concetto di gerarchie razziali che, a partire da presunte basi scientifiche, giustificava le società considerate più civilizzate a sentirsi migliori per la loro cultura, il commercio e la religione, a espandersi in altre aree del mondo e a educare i popoli considerati primitivi. Semplificando molto, queste teorie rafforzarono i pregiudizi contro le persone non europee e nel periodo dell’espansione imperialista legittimarono e rafforzarono numerosi movimenti nazionalisti, tra cui quello fascista.

In realtà il concetto di “razza” non ha un fondamento scientifico. Esistono se mai classificazioni antropologiche tra gli individui della specie Homo sapiens che fanno distinzioni tra le persone i cui antenati provengono dall’Africa subsahariana, quelle che da generazioni e generazioni vivono nell’Asia orientale, gli aborigeni australiani e i cosiddetti caucasoidi.

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