La mistica delle doglie

Sulla questione del controllo del dolore durante il parto ci sono ancora oggi molte resistenze

Ginnastica preparto, New York, 21 giugno 1953 (AP Photo/Dan Grossi)
Ginnastica preparto, New York, 21 giugno 1953 (AP Photo/Dan Grossi)
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Sull’Atlantic, la giornalista Stephanie H. Murray si è chiesta, a partire dall’esperienza del proprio parto, perché sia ancora così diffusa una specie di mistica del dolore quando si parla di travaglio. E perché la questione del controllo del dolore all’interno del parto sia ancora oggi al centro di «deliberazioni e controlli» che sembrerebbero assurdi in qualsiasi altra circostanza: «Di certo non ho mai preso in considerazione il fatto di rinunciare all’anestesia quando mi sono stati tolti i denti del giudizio. E nessuno me lo ha mai nemmeno chiesto».

L’epidurale, cioè la somministrazione di farmaci analgesici attraverso un piccolo catetere inserito con un ago in una determinata zona della colonna vertebrale, interrompe gli stimoli dolorosi provenienti dalle regioni coinvolte nel parto. Non compromette però né mobilità né sensibilità: la donna che sta per partorire ha dunque la percezione del proprio corpo e anche delle contrazioni uterine, ma in modo non doloroso. L’epidurale non è dunque un’anestesia, ma un’analgesia: nel caso dell’anestesia, necessaria per un intervento chirurgico, la quantità di farmaco somministrata è maggiore rispetto all’analgesia.

In Italia l’epidurale è poco diffusa rispetto ad altri paesi e non è nemmeno garantita, nonostante rientri nei Livelli essenziali di assistenza e nonostante nel 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia riconosciuto la procedura come un diritto di tutte le partorienti.

Stephanie H. Murray racconta come l’uso di anestetici durante il parto sia stata una questione controversa fin dall’inizio, nella storia della medicina. Quando nel 1847 il medico scozzese James Young Simpson iniziò a somministrare alle donne in travaglio l’etere e successivamente il cloroformio come anestetici incontrò una forte resistenza, anche se i metodi anestetici erano già ampiamente utilizzati in chirurgia.

La somministrazione di un anestetico alle partorienti aprì un grosso dibattito: c’era chi pensava, a ragione, che il cloroformio fosse nocivo, ma c’erano anche medici che consideravano l’anestesia durante il parto una pratica contro natura, in contrasto con la volontà divina: il dolore, insomma, doveva costitutivamente far parte dell’esperienza di una donna che partorisce (nella Genesi, rivolgendosi ad Eva Dio disse, almeno nella traduzione principale che si è fatto di questo brano e di come poi è stato tramandato: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli»).

L’ostetrico americano del diciannovesimo secolo Charles Meigs, ricordato soprattutto per la sua opposizione all’anestesia ostetrica, parlò della «natura moralmente dubbia di qualsiasi processo medico» usato per contrastare il corso di ciò che la «Divinità ha ordinato».

Nonostante tutto, Simpson disse che l’anestesia ostetrica alla fine sarebbe diventata la norma. Già a fine Ottocento alcune donne dell’alta società americana e britannica fecero questa scelta durante il travaglio. E all’inizio del Novecento iniziò a diffondersi in Germania il cosiddetto “sonno crepuscolare” che poi per diversi anni cominciò ad essere rivendicato come un diritto anche in altri paesi: consisteva in un’iniezione di morfina e scopolamina che portava la donna in uno stato di sonnolenza che la lasciava poi completamente priva della memoria del parto.

Le giornaliste Marguerite Tracy e Constance Leupp andarono in Germania per osservare il metodo e su una rivista statunitense scrissero che rendere accessibile l’anestesia ostetrica «avrebbe sollevato metà dell’umanità dal suo antico fardello di sofferenza che l’altra metà dell’umanità non ha mai compreso».

A questi primi metodi che avevano diverse controindicazioni e che comportavano seri rischi sia per la donna che per il nascituro, se ne aggiunsero altri ancora, e a metà del secolo, spiega l’Atlantic, l’uso dell’anestesia anche molto pesante durante il travaglio e il parto divenne molto diffuso. La storica della medicina Jacqueline Wolf pensa che tutto questo abbia avuto poco a che fare con il benessere delle donne, e più con il fatto che gli ospedali si trovarono improvvisamente a dover gestire un aumento significativo del tasso di natalità subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale (il cosiddetto “Baby Boom”): «Qual era un modo semplice per gestire le cose? Drogare al massimo le donne».

La pesante medicalizzazione del parto degli anni Cinquanta fu comunque piuttosto criticata: vi furono ostetriche poi divenute molto popolari che cominciarono a sostenere il parto naturale, come Grantly Dick-Read, e femministe che cominciarono a rivendicare il diritto di partorire senza interventi medici.

Nei decenni successivi, con il miglioramento dei metodi anestetici e della loro sicurezza, il dibattito divenne meno polarizzato. Nonostante questo, l’anestesia ostetrica rimane ancora oggi per molte donne un’opzione non praticata. Per Wolf questo potrebbe dipendere dal fatto che l’anestesia ha rappresentato per decenni un intervento molto pericoloso dal punto di vista medico e che dunque continui a persistere una sorta di diffidenza nei confronti di questa opzione.

Stephanie H. Murray, citando alcune esperte con cui si è confrontata, sostiene che se anche i rischi dell’anestesia venissero annullati, resterebbero sempre delle donne che continuerebbero a scegliere un travaglio e un parto senza anestesia. Il dolore del travaglio e del parto è infatti differente da qualsiasi altro tipo di dolore, dice. Laura Whitburn, docente all’università australiana La Trobe, ha spiegato che il dolore del travaglio è un processo fisiologico naturale che non indica, come invece tutte le altre forme di dolore, che qualche cosa nel proprio corpo «non sta funzionando».

Il dolore che accompagna il travaglio e il parto sembra insomma avere uno scopo preciso: una teoria piuttosto diffusa è che spinga la donna a interrompere qualsiasi altra cosa stia facendo per cercare aiuto e prepararsi all’arrivo del bambino. È un dolore produttivo, insomma, e secondo la ricerca di Whitburn pensarlo in questo modo potrebbe aiutare le donne ad affrontarlo.

Non tutte le donne sperimentano il travaglio nello stesso modo, naturalmente. Varie ricerche, spiega l’Atlantic, hanno studiato la percezione del dolore da travaglio e, sebbene le donne lo descrivano genericamente come «intenso, impegnativo e difficile», il linguaggio che usano per nominarlo, nei dettagli, varia parecchio. C’è chi lo paragona al «dolore della morte» e chi ne parla come del «dolore più dolce del mondo». Per alcune donne, conclude l’Atlantic, sembra dunque che quel dolore faccia parte dell’esperienza del parto e che, anzi, lo renda in qualche modo gratificante.

In Italia l’epidurale non è molto diffusa: i dati dicono che viene utilizzata fra il 18 e il 20 per cento dei casi, mentre in Francia, ad esempio, si arriva all’82,7 per cento. La Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) dice che la maggior diffusione del controllo del dolore nel travaglio «è ostacolata da ragioni di tipo culturale, clinico e organizzativo e la scarsa conoscenza della metodica è ancora piuttosto evidente tra i professionisti dell’area ostetrico-ginecologica e anestesiologica».

Questo servizio, invece, «dovrebbe essere assicurato attraverso un percorso organizzativo e clinico che valuti il ricorso alla procedura in termini di rischio-beneficio, garantendo concretamente a tutte le gestanti di fare la miglior scelta per sé e per il proprio bambino».

Nel 2018 l’OMS aveva raccomandato l’analgesia epidurale all’interno di un documento finalizzato a ridurre la medicalizzazione del parto, sostenendo che fosse un diritto delle donne. Come aveva commentato al tempo della pubblicazione l’anestesista Maria Grazia Frigo il documento dell’OMS era molto significativo: «Significa che l’epidurale non è vista come una pratica che interrompe la “naturalità” del parto. Inoltre l’OMS emancipa le donne, praticamente dice loro che possono chiedere l’analgesia senza sentirsi in colpa».

In Italia, notava sempre Frigo, «c’è un problema culturale. Un pregiudizio secondo il quale il controllo farmacologico del dolore anestetizza le emozioni e compromette la fisiologia del travaglio. Questo non è vero. Anzi, ridurre la sofferenza non è solo umanizzazione ma permette alla partoriente una maggiore consapevolezza».

Non si tratta solo di un problema “culturale” o di scelte personali, ma anche di scarsa informazione e di mancata garanzia di una procedura che, nel nostro paese, dal 2008 rientra nei Livelli essenziali di assistenza (cioè nei servizi e le prestazioni che il servizio sanitario nazionale è tenuto sempre a offrire) ma che invece non è garantita a tutte le donne. Come spiegato qui, non tutti gli ospedali che dovrebbero riescono a offrire l’epidurale gratuitamente, a causa soprattutto della mancanza di anestesisti.

– Leggi anche: Che cos’è la violenza ostetrica