L’era delle gif è finita

Le immagini animate ripetute all'infinito che si vedevano ovunque fino a qualche anno fa sono superate, dice la piattaforma che ne ha fatto un business

Uno screenshot di Giphy
Uno screenshot di Giphy
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Nel maggio del 2020, Facebook, che all’epoca doveva ancora cambiare nome in Meta, annunciò di voler acquisire Giphy per 400 milioni di dollari. Giphy è un servizio che funziona come archivio e motore di ricerca di gif, cioè quel particolare formato di immagini animate che si ripetono in loop. Quando nacque Giphy, nel 2013, le gif stavano vivendo una fase di grande successo, grazie soprattutto a social network come Tumblr dove ne veniva fatto abbondante uso. Negli anni successivi si diffusero soprattutto per commentare e aggiungere colore o sfumature a un post o messaggio scritto online: un tipo d’utilizzo noto come reaction gif.

Come ha scritto recentemente il Guardian, a favorirne l’ascesa era stato l’avvento di connessioni internet più veloci, che permettevano di caricare queste immagini – più pesanti di quelle comuni in formato jpeg –, rendendole «il modo più semplice di condividere brevi clip». Da allora le connessioni sono diventate ancora più veloci ed economiche, anche da mobile, favorendo la fruizione di veri e propri video, come dimostra il successo di TikTok, e rendendo le gif meno interessanti per gli utenti più giovani.

Le gif, insomma, sono stati elementi centrali nell’esperienza digitale della generazione dei cosiddetti millennials (che oggi hanno tra i 25 e i quarant’anni), ma non hanno fatto altrettanto per la generazione Z, quella delle persone nate tra il 1997 e il 2012, che le considerano superate. L’ha detto la stessa Giphy in un documento ufficiale presentato alla Competition and Markets Authority (CMA), l’autorità di regolamentazione della concorrenza del Regno Unito, che un mese dopo l’annuncio dell’acquisizione da parte di Facebook nel 2020 tentò di bloccare l’accordo ritenendolo eccessivamente dannoso per la concorrenza.

Nel luglio del 2021, l’autorità britannica arrivò a ordinare a Meta di vendere Giphy, temendo che «l’acquisizione potesse essere usata per vietare o limitare l’accesso ad altre piattaforme e portare più traffico a Facebook, WhatsApp e Instagram», tutte proprietà di Meta. Inoltre, secondo la CMA, Giphy rappresentava un’alternativa al business pubblicitario di Meta, che sarebbe stata eliminata come conseguenza della fusione.

Lo scorso agosto è arrivata la risposta ufficiale di Giphy, che ha puntato sulla crescente irrilevanza delle gif per mediare con l’autorità: «Come forma di contenuto è fuori moda, e gli utenti più giovani in particolare descrivono le gif come “cringe” o “da boomer”», si legge nel documento. L’istanza include anche dati relativi al calo dei caricamenti di nuove gif e dei nuovi account creati nella piattaforma. L’azienda ha inoltre sottolineato «l’assenza di compratori idonei interessati» al di fuori di Meta, intendendo che il gruppo che comprende Facebook è l’unico disposto ad acquistare Giphy.

«È raro che una società multimilionaria dichiari apertamente che il suo business sta morendo perché semplicemente troppo poco cool per sopravvivere», ha scritto il giornalista Alex Hern commentando la notizia.

In un articolo pubblicato da Vice lo scorso gennaio, l’autrice Amelia Tait ha scritto che «le gif sono diventate da boomer» raccogliendo le interviste di alcune ventenni che collegavano l’uso di queste immagini alle abitudini dei loro genitori. Secondo la psicologa Linda Kaye, docente della Edge Hill University, in Inghilterra, a rendere le gif poco affini ai gusti correnti sarebbe stata anche la diffusione di servizi come TikTok, che premiano «la creazione personalizzata di contenuti», a discapito delle reaction gif.

Le gif sono un vecchio arnese nel web: il formato, il cui nome sta per Graphics Interchange Format, è nato nel 1987 e si è imposto in un panorama digitale piuttosto differente da quello attuale, fatto di imageboard, forum, blog e pochi social network molto diversi da quelli che vanno di moda oggi. «Le gif sono estremamente datate. Non sono mai state facili da creare e non hanno mai funzionato bene dai dispositivi mobili», ha spiegato il giornalista Ryan Broderick, esperto di cultura digitale.

L’estremo successo delle reaction gif, inoltre, ha spinto molte piattaforme a includerle nelle loro funzioni, rendendole facili da cercare e pubblicare, anche grazie a servizi come Giphy. Lo stesso successo di Giphy poi ha contribuito al declino del formato, portando a «una notevole monotonia nella cultura della gif», come scritto nel 2020 dal giornalista Brian Feldman. «Gli stessi principi che valgono per Google valgono anche per Giphy», secondo l’autore: se una gif non è inclusa tra i primissimi risultati di una ricerca, è come se non esistesse. Questo ha appiattito e uniformato il panorama delle immagini animate, contribuendo a renderle meno divertenti e attrattive per i nuovi utenti.

Il progresso tecnologico non è nemmeno riuscito a risolvere uno dei problemi tecnici che da sempre affliggono questo tipo di formato, e cioè il fatto che abbiano dimensioni notevoli nonostante la qualità medio-bassa.

Nel corso degli anni le gif sono state anche al centro di polemiche sul presunto razzismo di alcune immagini molto diffuse, in cui compaiono spesso persone nere con un’espressione drammatica o buffa. Il fenomeno è detto digital blackface e indica «la singolare e piuttosto prevalente abitudine da parte di persone bianche e non-nere di fare affermazioni anonime di un’identità nera attraverso mezzi tecnologici contemporanei come i social media», come scritto da Laur M. Jackson in un saggio del 2014 pubblicato dal sito The Awl.

Broderick sostiene che oggi le gif si siano ridotte a «quell’imbarazzante immagine con cui il tuo capo risponde su Slack», e non rappresentino più il metodo di comunicazione libero e decentralizzato di un tempo. E aggiunge: «È davvero triste pensare a come la gif sia stata strozzata dalle grandi corporation, dalle leggi sul copyright e dai browser mobili».