Che vita avranno i figli degli influencer?

Diverse analisi suggeriscono che essere ripresi costantemente da piccoli potrebbe avere implicazioni sul loro sviluppo psicologico e sociale

social bambini
Una scena del film del 1998 “The Truman Show”

La straordinaria diffusione dei social media nell’ultimo decennio ha generato, tra le altre cose, significative opportunità di guadagno per molte persone attraverso la pubblicità. Alcune in particolare, i cosiddetti influencer, hanno ottenuto una popolarità personale sufficiente a influenzare acquisti e talvolta anche comportamenti di chi le segue. E alcune tra queste, diventate genitori nel frattempo, hanno cominciato più o meno regolarmente e attraverso gli stessi canali social a condividere immagini e video dei propri figli: con il risultato di accrescere anche la popolarità di questi ultimi, a prescindere dalle intenzioni iniziali.

Il fenomeno dell’esposizione costante dei bambini sui social media da parte dei loro genitori, o di altri adulti che ne sono responsabili, è sintetizzata in ambito anglosassone dall’espressione «sharenting» (dall’unione delle parole «share», condividere, e «parenting», essere genitori). Ed è già da diversi anni oggetto di analisi e riflessioni che la distinguono da prassi già storicamente diffuse su altri media, come la televisione o il cinema, e le cui dinamiche sono più o meno note. La associano, invece, a implicazioni e rischi nuovi, ed effetti ancora in parte sconosciuti, relativi sia al piano della privacy e dei diritti che a quello dello sviluppo psicologico individuale dei bambini.

Nei paesi anglosassoni, dove il fenomeno dello sharenting esiste ed è studiato da più tempo sia da psicologi che da esperti di media e comunicazione: le riflessioni più condivise lo definiscono in termini generali come una tendenza comune tra molti genitori, non solo tra gli influencer. Le differenze tra un caso e l’altro sono inquadrate principalmente in termini di scala: sia per quanto riguarda la diffusione dei contenuti, più ampia nel caso degli influencer, sia per le implicazioni economiche, legali e sociali della condivisione.

La sostanziale trasversalità del fenomeno lo rende di conseguenza difficile da definire con precisione in termini numerici. In Italia, in un sondaggio contenuto in uno studio del 2017 sulla Rivista italiana di educazione familiare, il 68 per cento delle persone intervistate – prevalentemente madri con figli di età compresa tra 0 e 11 anni – disse di pubblicare con una certa frequenza foto dei propri figli online, attraverso i profili social. E il 30 per cento di farlo anche su gruppi Facebook o altri gruppi con un pubblico più ampio di quello di un profilo personale.

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Come in altre analisi dello stesso tipo in altri paesi, dal sondaggio emerse una tendenza degli adulti a ridurre la frequenza delle condivisioni online di contenuti sui propri figli man mano che i figli crescono. In alcuni casi una minore preoccupazione dei genitori riguardo alla condivisione online di contenuti sui figli è associata a fasi della vita in cui i bambini sono piccoli e ancora incapaci di parlare: fasi in cui, secondo il sondaggio, quegli adulti tendenzialmente percepiscono e descrivono la condivisione dei contenuti come un loro diritto di genitori, senza porsi granché il problema dei diritti dei figli.

Nei giorni scorsi, la pubblicazione da parte della nota influencer Chiara Ferragni di un video in cui dialoga con suo figlio Leone Lucia ha rinnovato alcune perplessità e commenti incentrati sui rischi per i bambini e sugli effetti a lungo termine di una loro prolungata esposizione mediatica in ambienti domestici e in contesti di apparente intimità. Le osservazioni di molti sono sembrate in parte basate sul formato del video utilizzato da Ferragni e sulla sua discussa autenticità: una ripresa da una telecamera di sicurezza, installata in camera da letto.

@chiaraferragniSciolta :smiling_face_with_tear:♬ original sound – Chiara Ferragni

In alcune riflessioni la consapevolezza o meno da parte dei figli di essere ripresi è considerato un argomento rilevante per stabilire il grado di complicità con i genitori e di fiducia reciproca. Ma a prescindere da questo, diverse analisi del fenomeno dello sharenting emerse negli ultimi anni – tanto nei casi di video e foto di comportamenti quotidiani e spontanei, quanto in quelli in cui l’autenticità è un effetto ricercato e ottenuto artificiosamente – hanno posto l’attenzione sulle conseguenze per i bambini dal punto di vista dello sviluppo emotivo e psicologico. E hanno ipotizzato il rischio di una sovrapposizione di piani differenti della realtà dovuta a una difficoltà dei bambini a distinguerli.

Una parte degli articoli di approfondimento che negli Stati Uniti si sono occupati di sharenting descrive un tipo di disorientamento molto comune tra i bambini protagonisti fin dalla nascita di foto e video diffusi pubblicamente dai loro genitori influencer. Crescendo, alcuni si rendono conto della propria presenza online, significativamente maggiore rispetto alla media, dal confronto con i coetanei.

Un esempio di qualche anno fa è il caso di una influencer californiana con molte sponsorizzazioni attive e circa 250 mila follower, Collette Wixom. Suo figlio di otto anni tornò un giorno a casa da scuola chiedendole se fosse famoso, dopo aver scoperto molti video e foto di sé googlando il suo nome insieme ai compagni di classe. «Non sei famoso ma la gente sa chi sei», gli rispose lei, come raccontò poi all’Atlantic descrivendo suo figlio come consapevole del fatto che venisse spesso fotografato da lei ma non «esplicitamente consapevole» del fatto che le persone poi vedessero davvero quelle foto.

 

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La creazione di contenuti sui bambini da parte dei loro genitori è da tempo un genere molto presente su Internet, già associato a stabili fonti di ricavo fin dagli anni in cui il formato prevalente erano testi scritti sui blog rivolti alle mamme. Il passaggio dai blog a un mezzo principalmente visivo come Instagram, spiegò all’Atlantic l’antropologa Crystal Abidin, ha reso più semplice «fare soldi condividendo semplicemente l’immagine di un bambino e un prodotto, piuttosto che presentare una narrazione sulla genitorialità stessa». E la fiorente industria degli influencer ha reso comune che i bambini in posa, con o senza i loro genitori, venissero «ridotti a oggetti di scena».

In uno studio del 2017 sulle pratiche e gli atteggiamenti diffusi nelle famiglie di influencer, Abidin definì «dilettantismo calibrato» la pratica – spesso affidata a fotografi professionisti – di confezionare video e immagini in modo da farli apparire casuali, una documentazione di momenti quotidiani e autentici. E la descrisse come una delle più efficaci strategie di self-branding nella presentazione dei contenuti sui bambini, utile a costruire una loro identità riconoscibile online, più coinvolgente per il pubblico e distante dall’estetica «orientata al lusso» degli influencer adulti.

Le vite dei kidfluencer – uno dei nomi attribuiti dai media ai bambini molto popolari sui social – sono anche generalmente scandite da routine quotidiane piuttosto rigide, intorno alle quali i genitori pianificano un programma di pubblicazioni. E generalmente tutti i genitori insistono sul fatto che i bambini si divertano molto. «Per Laerta scattare foto vuol dire giocare con le bambole», disse all’Atlantic la madre della protagonista del profilo Instagram Fashion Laerta, una giovane influencer le cui prime foto sul profilo risalgono a quando aveva quattro anni.

 

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L’autrice statunitense Leah Plunkett, docente alla Harvard Law School e alla University of New Hampshire Franklin Pierce School of Law, ha trattato alcune delle implicazioni della sovraesposizione dei bambini sui media digitali nel libro Sharenthood: Why We Should Think before We Talk about Our Kids Online.

Secondo Plunkett, uno degli aspetti problematici della condivisione di contenuti sui bambini riguarda innanzitutto il loro consenso. Sono esposti sulle piattaforme digitali senza averlo mai scelto e, il più delle volte, senza che i loro genitori abbiano considerato abbastanza le ripercussioni a lungo termine, in un contesto in cui le possibilità che quelle ripercussioni si rivelino dannose cambiano di giorno in giorno. Cosa che in generale vale per la condivisione di contenuti online anche tra gli adulti, prosegue Plunkett: scegliamo in cambio di questi servizi di cedere i nostri dati e di non immaginare le possibilità peggiori.

Ma nel caso dello sharenting la differenza è che quel «dossier digitale» che riguarda qualsiasi adulto che utilizzi piattaforme e servizi su Internet – e che spesso causa imbarazzi e problemi noti a persone poi chiamate a rendere conto di quanto affermato in passato – risale ancora più indietro nel tempo, fino al giorno della nascita (o anche prima: le immagini di ecografie pubblicate durante la gravidanza).

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In passato, scrive Plunkett, la maggior parte delle fotografie di famiglia era scattata con l’intenzione di documentare qualcosa per sé e da tramandare ai propri discendenti. Oggi, la maggior parte di noi scatta fotografie pensando di condividerle immediatamente con altre persone. E non è chiaro se e in che misura in futuro le pubblicazioni di contenuti relativi ai bambini potranno essere trattate come una sorta di punteggio, una metrica del loro «capitale sociale». Né quali effetti avranno nelle vite di ciascuna di quelle persone: sulle loro reputazioni a scuola e sulle loro carriere professionali, ma prima ancora sulla loro «capacità di sviluppare il proprio senso di sé».

Le implicazioni nel caso dello sharenting da parte degli influencer possono essere ancora più problematiche. Un esempio citato spesso negli Stati Uniti, citato anche da Plunkett, è quello di una famiglia di influencer protagonista di un popolare canale YouTube chiamato DaddyOFive e seguito, al suo apice, da 750 mila persone. Fu aperto nel 2015 e gestito fino al 2017 da una coppia di coniugi del Maryland sulla trentina, Michael e Heather Martin, genitori di cinque figli.

Nei loro video i Martin prendevano in giro i loro figli, organizzando scherzi e provocazioni inizialmente osservati e apprezzati da una parte del pubblico come rappresentazione grottesca di un approccio disinvolto e in alcuni casi del tutto negligente alla genitorialità. Gli scherzi prevedevano occasionalmente urla, buffetti o ceffoni dei Martin ai loro figli, o scene in cui rompevano i loro giocattoli o dicevano loro che erano stati adottati. Il pubblico cominciò a trovare quegli scherzi crudeli.

Alla fine, sebbene affermassero che fosse tutto messo in scena e che i bambini avessero accettato di recitare ciascuno il proprio ruolo, i Martin subirono un processo. Uno psicologo interpellato durante il dibattimento riscontrò in due dei loro figli, all’epoca di nove e undici anni, «menomazioni osservabili, identificabili e sostanziali delle loro abilità mentali o psicologiche». I Martin furono condannati a una pena di cinque anni di libertà vigilata, e tutti i video furono cancellati.

Per quanto distante possa sembrare dall’esperienza comune di genitori non influencer né youtuber, la storia dei Martin è secondo Plunkett un esempio estremo di possibili condizionamenti ed effetti associati in generale all’abitudine di condividere le nostre vite online.

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In un articolo del 2019 sul New York Times, gli psicologi clinici della University of Virginia Daniel T. Willingham e Rebecca Schrag Hershberg scrissero che «ridere pubblicamente dell’angoscia del proprio bambino è diventato in qualche modo non solo accettabile ma incentivato». E il problema non è tanto la voglia del tutto comprensibile di ridere quando un bambino piange o appare sconsolato per qualche ragione che a noi sembra poco rilevante, quanto l’impulso a rendere pubblici quei momenti prendendo in giro il bambino.

L’autrice statunitense Lee Humphreys, che studia gli usi sociali e gli effetti percepiti della tecnologia della comunicazione, definisce l’impulso dei genitori a raccogliere e condividere informazioni sui loro figli come la funzione di una forma di «contabilità dei media». Documentare i momenti in cui vengono svolti i vari ruoli che le persone svolgono nel corso della loro vita – figlio, coniuge, genitore, collega e altri – è un modo di svolgere quei ruoli, secondo Humphreys. Osservare retrospettivamente quelle tracce può infatti servire a plasmare il proprio senso di sé, costruendo storie coerenti della propria vita in contatto con altre persone.

Nel caso dei genitori, oltre che a dare un senso alla propria identità, documentare la propria esperienza e scherzare sulle difficoltà note tra persone che condividono una stessa condizione, può servire a creare un senso di solidarietà all’interno del gruppo. Per i genitori può essere consolante ricevere conferme di non essere gli unici alle prese con i capricci di un figlio alla cassa di un supermercato, per esempio.

Ma c’è un momento in cui la ricerca pubblica di conferme e approvazioni nel gruppo si espande a spese dei bambini stessi, scrissero Willingham e Hershberg citando un libro molto popolare del 2015 dal titolo Toddlers are A##holes: It’s Not Your Fault («I bambini sono degli str..zi: non è colpa vostra»), che conteneva un insieme di rassicurazioni per i genitori e umorismo sui bambini.

A volte certe reazioni dei bambini piccoli possono apparire manie melodrammatiche e divertenti agli occhi dei genitori, e scherzarci sopra non sembra una cosa sbagliata, scrissero Willingham e Hershberg: «Dopo tutto, non stanno piangendo perché è morto il loro cane, piangono perché l’acqua nella loro tazza è troppo bagnata». Ma nella testa di un bambino di due anni entrambi gli eventi «potrebbero essere ugualmente tragici»: la corteccia prefrontale del suo cervello non è ancora abbastanza sviluppata da rendere semplice per lui regolare le emozioni derivanti dal trovare che l’acqua sia troppo bagnata o dal sapere che il cane non tornerà.

Il fatto che l’agitazione di un bambino appaia illogica a un adulto «non la rende meno reale». E la sua angoscia non dovrebbe essere recepita come «un segnale per tirare fuori lo smartphone cercando di ottenere “Mi piace”». Che è una cosa «già abbastanza brutta» quando si tratta di riprendere una persona sconosciuta in pubblico: figurarsi «quando è tuo figlio, che cerca il tuo rispetto e la tua compassione».

È giusto che i bambini imparino a ridere di sé stessi, secondo Willingham e Hershberg, ma questo dovrebbe avvenire prima di tutto nel contesto intimo e familiare. E senza che questa fase del loro sviluppo sia intanto oggetto di prese in giro rese pubbliche in foto e video diffusi sui social, spesso ritenuti innocui dai genitori solo perché sanno che i bambini non vedranno quei video. «Se un’azione è sbagliata, la consapevolezza [dei bambini] non è il punto della questione», conclusero Willingham e Hershberg.

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Nel caso dei kidfluencer, a rendere il discorso sugli effetti della condivisione di foto e video di bambini più complesso e articolato sono – oltre ai comuni e studiati meccanismi di ricompensa neurobiologica sui social – gli incentivi economici per i genitori. Le leggi vigenti in materia di sfruttamento sono in molti paesi ritenute arretrate e inadatte a tutelare i diritti dei bambini rispetto ai rischi specifici legati all’utilizzo delle loro immagini sui social media: cosa che rende ulteriormente difficile tracciare un confine tra gioco e lavoro.

In California, esiste una legge – la legge Coogan, dal nome dell’attore statunitense che nel 1921 recitò nel film di Charlie Chaplin Il monello, Jackie Coogan – che regola i diritti dei bambini rispetto ai guadagni ottenuti dai genitori quando i bambini sono assunti o messi sotto contratto da terze parti. Ma l’applicabilità di questa legge nel caso di genitori che attraverso la pubblicità ottengono guadagni pubblicando immagini e video dei loro figli sui sociali media è da tempo oggetto di discussioni.

In un rapporto pubblicato a maggio scorso sulle evoluzioni recenti dei media digitali, il ministero per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport del governo britannico ha indicato la necessità di aggiornare le normative per proteggere i bambini dallo sfruttamento nella comunità degli influencer. E ha sollecitato interventi per indagare sugli standard retributivi nel settore e obbligare gli influencer a rendere chiari i loro rapporti con gli inserzionisti nei contenuti pubblicati.