Una canzone degli Embrace

Venuta proprio come nella foto sulla scatola

(Bryn Lennon/Getty Images)
(Bryn Lennon/Getty Images)
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Ci sono i candidati al Mercury Prize, che una volta era l’unico premio in cui trovare dei dischi di qualità davvero, ma negli ultimi anni ha un po’ sbracato cedendo a cose più mainstream.
Una giovane amica mi aveva chiesto aiuto per trovare dei biglietti per il concerto di Ultimo, sei mesi fa, già tutti venduti. Dopo un po’ di ricerche li ho trovati su Stubhub, un sito di rivendita di biglietti di seconda mano che avevo usato altre volte con soddisfazione nelle sue versioni britannica e americana, efficienti e sicure nella mia esperienza. Li abbiamo comprati, ci è stata annunciata la loro consegna nel giro di pochi giorni (erano biglietti di carta), e invece sono passati mesi e non sono mai arrivati, con risposte evasive da un inafferrabile servizio di assistenza e con qualche allarme da parte dei destinatari dei biglietti: e imbarazzo mio che avevo dato loro garanzie e mi vivevo come esauditore di desideri. Anche perché cercando online si trovavano i feedback più severi e preoccupanti nei confronti di Stubhub italiano, e racconti di esperienze pessime: io continuavo a dirmi che non bisogna mai guardare i feedback su internet, è come googlare un sintomo insignificante, si finisce presto a essere convinti di morire in pochi giorni. A volte di essere già morti.
Quattro giorni prima del concerto, dopo una decina di mie mail all’unico recapito offerto, una risposta mi ha detto con tante scuse che i biglietti sarebbero arrivati in tempo: io intanto stavo implorando aiuto presso qualunque aggancio mi venisse in mente per non sfigurare coi giovani fan di Ultimo. Ho pure twittato una richiesta di pareri e ho ricevuto risposte che dicevano “sei fottuto”, ma più garbatamente di così (e c’era quel precedente dei Pet Shop Boys).
I biglietti sono arrivati il giorno prima del concerto, e tutto è bene quel che finisce bene. Ma se la morale sia quindi “Stubhub italiano è ok” o “Stubhub italiano statene alla larga” non so dirlo.
Nel campionato delle lucine ai concerti, però, vincono i Coldplay .

Gravity
Embrace

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“Ma capita ancora, per un qualche accidente, di ritrovare in un angolo della memoria il ricordo di una canzone durata un mese, il brandello di una melodia, l’emozione suscitata allora da un pezzo decisamente imbarazzante (mentre mi sono emancipato da “Clouds across the moon” della Rah Band, una via di mezzo tra “Life on Mars” e “Piange il telefono”, continua a muovermi “Elstree”, dei Buggles)”.

Era un pezzetto della lunga introduzione di Playlist , che diceva una cosa che da quando mando questa newsletter do piuttosto per scontata, ma la canzone di stasera mi dà l’occasione di riprenderla. Ci piacciono un sacco di canzoni scarse, e ci sono tutte delle ragioni e non bisogna vergognarsene, mantenendo la consapevolezza che siano scarse e l’ammirazione per la loro capacità di piacerci malgrado tutto.

Gravity è un ballatone scritto col manuale “ballatoni facili se avete poco tempo e gli ospiti stanno arrivando”, e metteteci sopra il testo più banale che vi viene in mente. Però la ricetta è eseguita alla lettera, come quando la torta vi viene poprio come nella figura sulla scatola.
Loro sono una band inglese che andò forte con un pop rocchettato o un rock saponato tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, ma sono ancora in circolazione e stanno per pubblicare un nuovo disco.
Gravity è del 2004 e fu scritta dai Coldplay, con i quali gli Embrace condivisero parecchi palchi. Poi la registrarono anche loro, più lenta, un po’ noiosa. Ora che ne ho parlato abbastanza male posso dire che il modo in cui fa “and then I looked up at the sun and I could see” potrei farla girare in loop per un’altra mezz’ora.

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