Il modo in cui parliamo ai neonati è una specie di lingua franca

Il cosiddetto “baby talk” ha molte similitudini in culture diversissime tra loro, ha scoperto un nuovo studio

(Tomohiro Ohsumi/Getty Images)
(Tomohiro Ohsumi/Getty Images)
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Per comunicare con neonati e bambini molto piccoli emettiamo spesso versi e suoni che non useremmo con gli adulti, senza esprimere necessariamente frasi di senso compiuto. Una ricerca da poco pubblicata spiega che questo modo di esprimerci, il “baby talk”, reso in italiano con il termine maternese e più di recente con “parentese” (da “parent”, genitore in inglese, da cui deriva l’ancora poco affermato “genitorese”) sembra essere universale e condiviso dalla maggior parte degli esseri umani, anche tra culture sensibilmente diverse tra loro.

Il nuovo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Human Behaviour e ha attirato l’attenzione di gruppi di ricerca ed esperti, soprattutto per l’ampia quantità di dati su cui è basato. Circa quaranta ricercatrici e ricercatori hanno collaborato alla ricerca, raccogliendo e analizzando più di 1.600 registrazioni di voci da 410 persone in sei continenti, che vivono in contesti molto diversi tra loro: da quelli urbani a quelli rurali.

In ciascuna delle culture analizzate, dalla Tanzania alla Cina passando per vari paesi occidentali, il gruppo di ricerca ha riscontrato come gli adulti parlino diversamente se devono comunicare tra loro o con i neonati, magari intrattenendo questi ultimi con filastrocche e canzoncine. Questa differenza nel comunicare tra adulti o con i più piccoli è comune a gruppi culturali anche molto diversi tra loro, con numerose similitudini.

Lo studio porta nuovi elementi alle ipotesi sul fatto che il “baby talk” abbia funzioni che non dipendono da elementi culturali o sociali, ma che sia qualcosa di più profondo legato al modo in cui siamo fatti e interagiamo con il mondo che abbiamo intorno. Secondo varie ricerche, i suoni che gli adulti emettono per comunicare con i neonati hanno un ruolo molto importante nella fase dello sviluppo. È stato osservato che il “baby talk” può aiutare i neonati a ricordare meglio alcune parole, anche osservando il modo in cui si muove la bocca di chi sta parlando con loro, in modo da avere qualche riferimento visivo oltre che uditivo. È inoltre noto, e lo sa bene chi abbia avuto a che fare con un neonato, che alcuni suoni emessi con corde vocali e bocca aiutano a calmare una crisi di pianto, oppure a favorire l’addormentamento.

Basandosi su queste conoscenze, si riteneva che il “baby talk” fosse una pratica diffusa in buona parte del mondo, anche se non erano mai state raccolte evidenze su grande scala per confermarlo. La ricerca da poco pubblicata è un primo passo importante per iniziare a colmare quella mancanza di prove, contribuendo anche a ridurre alcuni preconcetti sul tema, legati al fatto che buona parte delle teorie sulla comunicazione tra adulti e neonati sia stata elaborata nei paesi occidentali.

Lo studio ha rilevato varie differenze tra il modo in cui un adulto parla con una persona adulta o con un neonato. In generale, il “baby talk” ha una tonalità più alta rispetto alla parlata tra adulti, comprende quasi sempre un alto numero di vocali e di suoni che non vengono resi quando si parla con un adulto. Le canzoni sono più semplici, lente e dolci rispetto a quelle per gli adulti. Anche se possono apparirci osservazioni banali, non era scontato che le stesse caratteristiche fossero presenti in aree del mondo molto diverse tra loro.

Per verificare se davvero le persone abbiano una sorta di capacità innata di riconoscere queste differenze, il gruppo di ricerca ha sviluppato il gioco online “Who’s Listening?” (“Chi sta ascoltando?”), cui hanno partecipato più di 50mila persone da quasi tutti i paesi del mondo. Dopo un breve questionario, veniva proposta la registrazione di una voce o di una canzone e il giocatore doveva indicare se a suo avviso fosse indirizzata a una persona adulta o a un bambino.

Dall’esperimento era emerso che nel 70 per cento dei casi i partecipanti erano in grado di indovinare correttamente verso chi fossero indirizzate le frasi o le canzoni, anche quando queste erano in lingue completamente diverse dalle loro e appartenenti a culture lontane. Le canzoni erano difficili da interpretare e con stili diversi, ma mantenevano comunque alcuni elementi riconoscibili per i partecipanti.

La ricerca porta nuovi importanti elementi sul fatto che il “baby talk” possa essere considerato una sorta di lingua franca, con meccanismi e principi condivisi tra diverse popolazioni. Benché sia basata su una quantità cospicua di dati, non fornisce comunque elementi definitivi anche perché è molto difficile confermare le affermazioni su comportamenti umani simili in culture diverse, sulle loro origini e su ciò che li abbia determinati. Lo studio è comunque tra i più importanti e ampi finora realizzati sul tema e potrà essere utilizzato per nuove ricerche e approfondimenti.